Ott 022012
 

Roma, Scuderie del Quirinale – 27 settembre 2012 – 20 gennaio 2013
 

★★★☆☆

Johannes Vermeer (1632-1675) è il pittore popolare per antonomasia, sia per i suoi effetti basati sulla luce radente, molto apprezzati dal pubblico – come in Caravaggio – sia per i suoi soggetti semplici, legati alla vita quotidiana. Questi ultimi, oltre ad essere vicini al sentire comune, hanno anche il pregio di non richiedere alcuna conoscenza storica o teologica, come invece avviene per i soggetti sacri, che caratterizzano la stragrande maggioranza della produzione italiana di pittura, dal medioevo fino al ‘700.

Ed è proprio la laicità, uno degli elementi che emerge con maggior forza da quella full immersion nella società olandese del 17° secolo che è la mostra “Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese”. Laicità che, ai nostri occhi di italiani di quattro secoli dopo, appare come sorprendente modernità, così strettamente integrata con una struttura sociale molto finalizzata all’interesse comune (la necessità di realizzare opere pubbliche per contrastare l’avanzamento delle acque in un territorio che era al di sotto del livello del mare) e assai vitale nell’industria e negli scambi commerciali.

È per questo che la mostra dovrebbe avere il titolo incentrato sul “secolo d’oro dell’arte olandese”, anziché su Vermeer, perché di quest’ultimo sono esposti solo 7 quadri (8 dal 4 ottobre) e neanche tra i suoi più importanti, salvo “Stradina di Delft” e “Allegoria della fede”. Del resto le Scuderie del Quirinale – senza nulla togliere alla bellezza delle mostre che allestiscono, tendono parecchio ad enfatizzare i materiali di cui dispongono, anche quando non sono particolarmente ricchi.

Quanto a Vermeer, in tutta la sua breve vita (43 anni) pare non abbia dipinto più di una cinquantina di quadri, di cui ne sono noti solo 36 in tutto il mondo. Il soggetto è di solito profano, come usa nei paesi protestanti, che non adornano le chiese con immagini sacre. Le scene scelte da Vermeer rappresentano quasi sempre la semplice vita quotidiana, nell’intimità delle mura domestiche. Ma chi pensa che sia una sua peculiarità, visitando la mostra romana si ricrederà, perché, a quanto sembra, tra i pittori olandesi del tempo la moda era proprio quella. E da quelle parti, già nel 17° secolo, i pittori dipingevano senza avere una committenza precisa, poi provavano a vendere i quadri. Johannes era semplicemente il più bravo, anche se ciò non gli ha impedito di vivere piuttosto in ristrettezze, anche a dispetto del matrimonio con un’esponente della borghesia più opulenta di Delft, la cittadina dalla quale non si è mosso per tutta la vita.

A seguito del matrimonio, Vermeer si convertì al cattolicesimo, e ne sono testimonianza ben due degli otto quadri della mostra (“Santa Prassede” e “Allegoria della fede”). Ma questo non gli impedì, come abbiamo visto per la scelta dei soggetti, di incarnare appieno lo spirito della calvinista Olanda. Il contesto, a volte, è tutto.

Recensione di Paolo Subioli

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