Dic 112018
 

Bertolucci 2Da primo sono diventato secondo. Bernardo mi ha superato, prima mi ha appaiato (Strategia del ragno), poi con Il conformista e Ultimo tango è diventato irraggiungibile…”. Sono parole tratte da una dichiarazione che Marco Bellocchio ha rilasciato subito dopo la morte di Bernardo Bertolucci, avvenuta lunedì 26 novembre scorso. Parole che ci risultano particolarmente care perché, da giovanissimi e con stili oltremodo diversi, rappresentarono entrambi uno spartiacque nella storia del cinema italiano. A venticinque anni Bellocchio ritrasse senza pietà la dissoluzione della famiglia borghese (I pugni in tasca, 1965), a ventitré Bertolucci con Prima della rivoluzione (1964) narrò le inquietudini di un giovane comunista che alla fine se ne torna nell’alveo rassicurante del proprio status sociale: “Il mio futuro di borghese è nel mio passato di borghese”. Cinema militante, di transizione, autobiografico? Senz’altro un cinema che rivela i prodromi di quelli che saranno gli sconvolgimenti prodotti dal movimento giovanile del ’68. Pesantemente bistrattato dalla critica italiana, nel maggio 1964 Prima della rivoluzione riscosse l’applauso di quella francese al Festival di Cannes e suscitò l’entusiasmo di Jean-Luc Godard. Da grande estimatore della “Nouvelle vague” Bertolucci fu molto orgoglioso di venire così tanto apprezzato dalla sofisticata pattuglia dei “Cahiers du cinéma”.

Figlio di uno dei più illustri poeti italiani del Novecento, Attilio Bertolucci, e nato a Parma il 16 marzo 1941, a undici anni si trasferisce a Roma con la famiglia ma il distacco gli reca subito un senso di rimpianto verso l’universo incantato di un’infanzia vissuta nella campagna emiliana. Proprio a Parma il padre gli ha fatto scoprire il piacere di andare al cinema e quello di raccontare poi le trame agli amici o al fratello Giuseppe, più piccolo di lui di qualche anno. A Roma prende la maturità classica mentre sta diventando un fervido cinéphile: La regola del gioco di Jean Renoir (1939) è uno dei suoi film prediletti. Di pari passo scrive poesie e nel 1962 vince il Premio Viareggio con la raccolta “In cerca del mistero” (versi composti tra i 14 e i 20 anni). Convinto di non poter mai competere con un padre tanto importante, ha l’occasione di esprimersi con mezzi diversi grazie a un altro grande poeta, un amico di famiglia, Pier Paolo Pasolini, che gli propone di fare l’aiuto regista in Accattone (1961), segnando una svolta decisiva per la sua formazione e nella sua vita. Interrompe così gli studi universitari (presso la Facoltà di Lettere alla “Sapienza”) e intraprende quel lungo viaggio che lo porterà a esplorare interi continenti, geografici e mentali, inseguito o inseguendo tematiche ricorrenti, quali l’ambiguità, le metamorfosi, l’imponderabile che sconvolge, il ruolo cruciale della morte, l’impossibilità di essere felici in amore, le illusioni destinate a causare vuoto e nessuna nostalgia.

Bertolucci 03L’inizio della collaborazione con il futuro vincitore di tre premi Oscar per la fotografia, Vittorio Storaro, coincide con due film realizzati entrambi nel 1970: La strategia del ragno e Il conformista, quest’ultimo liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia. Ambientato nel 1938 ha per protagonista un uomo che, sentendosi diverso a causa di opprimenti angosce represse, è pronto a compiere qualsiasi cosa pur di uniformarsi a tutti gli altri, comprese le più turpi nefandezze come sicario della polizia segreta fascista. Una catarsi all’incontrario, una discesa nel male, magistralmente resa dalla silhouette glaciale e tormentata di Jean-Louis Trintignant. “Il personaggio non mi piaceva granché – ricorda l’attore – ma quando è uscito il film Moravia ha detto che era meglio del romanzo. All’epoca Bertolucci aveva meno di trent’anni ed era in piena ascesa, al massimo delle sue potenzialità”. Ormai è indiscutibile il suo salto di qualità: da un cinema per pochi raggiunge un pubblico sempre più vasto e si guadagna riconoscimenti da parte di tutta la critica.

Intanto resta fedele al suo amore per la “Nouvelle vague” evocatrice di atmosfere e suggestioni, che aleggiano magari all’interno di appartamenti parigini, come quello dove un uomo maturo e una giovane ragazza si ritrovano inabissati dentro una storia ad alto contenuto erotico (Ultimo tango a Parigi, 1972) o quello dove transitano i tre protagonisti di The Dreamers (2003) durante il maggio francese del ’68. Più di trent’anni separano queste opere, ma solo la prima è diventata un cult movie detenendo ancora intatti potenza narrativa e un caleidoscopio di contaminazioni stilistiche. Un racconto scaturito dai meandri dell’inconscio che mette letteralmente a nudo pulsioni e fragilità di un Marlon Brando mai così dolente e disarmato. Un film trasgressivo nella forma e nei contenuti che attacca un pilastro della società borghese come la famiglia. Troppa audacia generò in Italia altrettanta repressione da parte dei benpensanti e della magistratura. Nel gennaio 1976 tutte le copie di Ultimo tango vennero distrutte, compresi i negativi, mandate al rogo per oscenità e per offesa al comune senso del pudore, in più Bertolucci fu condannato a due mesi di reclusione con la condizionale nonché alla privazione del godimento dei diritti civili per cinque interminabili anni. Dopo una travagliata battaglia giudiziaria, solo nel 1987 il film riuscirà a tornare nelle nostre sale, ma nel frattempo aveva riscosso strepitose accoglienze in tutto il mondo.

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Grazie al successo planetario di Ultimo tango, Bertolucci gira NovecentoAtto I e Atto II (1976), imponente affresco di mezzo secolo di storia nazionale (fino alla Liberazione del 25 aprile 1945) che riunisce sulle rive del Po grandi divi come Burt Lancaster, Sterling Hayden, Donald Sutherland, e giovani leoni come Robert De Niro e Gerard Depardieu: un firmamento di stelle accanto a veri contadini della bassa padana per oltre 40 settimane di lavorazione, finanziate da tre major americane. Un’impresa titanica che Bertolucci porta a termine coniugando prosa, melodramma e poesia. Seppur in un ruolo secondario spicca (quasi eredità viscontiana di Senso) la grande Alida Valli, a testimonianza del profondo legame che lo unisce al cinema italiano del dopoguerra. Nel film intende dimostrare che un’utopia può diventare realtà nella sequenza dove i contadini, a guerra finita, fanno il processo al padrone condannandolo a morte senza ucciderlo, perché serva a tutti come esempio. “Rimasi molto deluso quando in Italia Novecento venne criticato da certi comunisti. Il film era dedicato a loro. Non venne criticato da Berlinguer, ma da persone vicino a lui”.

Bertolucci 05Agli inizi degli anni ’80 patisce una “nebbia creativa” e non avverte stimolanti spunti d’ispirazione in un’Italia che gli sembra sempre più corrotta. Dopo aver diretto La tragedia di un uomo ridicolo (1981), si trasferisce all’estero quando ormai è ritenuto uno dei maestri più autorevoli a livello internazionale. Bertolucci non delude tale fiducia e medita di realizzare un kolossal in stile hollywoodiano, uno di quelli che gli americani non sono più capaci di fare. Solo la troupe è composta da 150 membri occidentali e da 150 cinesi, diciannovemila le comparse impiegate. In tutta la storia del cinema, con L’ultimo imperatore (1987) Bertolucci resta l’unico italiano ad aver conquistato l’Oscar come miglior regista, oltre a essersi contemporaneamente aggiudicato altre otto delle ambite statuette. Girato in esterni in Cina (gli interni a Roma, Londra, Pechino, Salsomaggiore), questo capolavoro è immortalato dalla fotografia di Vittorio Storaro che, con il suo mirabile cromatismo, glorifica una vicenda ispirata all’autobiografia di Pu Yi, l’ultimo imperatore cinese travolto dalla rivoluzione maoista.

Quando nel novembre 1989 viene abbattuto il muro di Berlino, Bertolucci si trova tra le dune del Nord Africa per dirigere John Malkovich e Debra Winger nel ruolo di una coppia americana alla deriva (Il tè nel deserto, 1990), turisti errabondi tra le piaghe dell’anima, carovane di tuareg e un amore troppo tardi ritrovato. Un film nichilista che non viene ben recensito da certa parte della critica italiana ma giudicato da Enzo Siciliano: “il più bel film di Bertolucci, uno dei più commossi e struggenti di tutta la storia del cinema”.

E’ difficile attribuire uno specifico genere a tutta la sua opera secondo categorie tradizionali. Crocevia di eterogenee influenze stilistiche, cosmopolita, intriso di psicanalisi e sensualità, sempre pieno di conflitti e di passioni, di coordinate storiche rivisitate attraverso il mondo della psiche. E poi l’ingresso di elementi nuovi e dirompenti grazie a una geniale capacità di mediazione che fa di lui uno degli autori moderni che più hanno influenzato intere generazioni di cineasti, distaccando anni luce autorevoli registi italiani e dimostrando di poter sfidare fuoriclasse americani.

Nel 1993 escono due titoli di strepitoso successo, Schindler’s List (Steven Spielberg) e Un mondo perfetto (Clint Eastwood), mentre Bertolucci vola in alto, fino in Nepal, per raccontare la reincarnazione di un Lama nel corpo di un vispo ragazzino americano (Piccolo Buddha), alternandola con una serie di flashback sulla leggendaria vita del principe Siddharta. Il super accessoriato Occidente e l’Oriente millenario s’incontrano per un momento, come un mandala dal destino impermanente. Forse il film più lirico e visionario di Bertolucci, magnificato da formidabili effetti speciali che non disperdono un autentico effluvio di sacralità. Altro capolavoro.

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Nel 1996 torna a girare in Italia, nella zona lussureggiante del Chianti, per narrare una storia colorata di prati fioriti e di crepuscoli rossi come la gonna di una ragazza non ancora ventenne (la bella Liv Tyler), appena giunta dall’America sulle tracce di un padre mai conosciuto (Io ballo da sola). Per Bertolucci è un ritorno a passo lieve, quasi sulle note d’un quartetto d’archi, tra figli giovanissimi e una schiera di adulti usciti un po’ frastornati dai postumi di giovanili contestazioni. Il tutto esaltato dalla fotografia di Darius Khondji che solo un anno prima aveva inseguito un serial killer per i tetri e angoscianti labirinti di Seven (David Fincher). Quando gira questo film Bertolucci ha in mente un ben altro ardito progetto: l’Atto III di Novecento sulla storia italiana dal 1945 al 2000. Peccato non averlo potuto vedere realizzato.

C’è davvero un primo e un secondo Bernardo Bertolucci? Da quando nel 1964 riprese un’innamorata Adriana Asti sulle note della bellissima “Vivere ancora” di Gino Paoli (Prima della rivoluzione) a quando inseguì in una cantina le traversie di un adolescente e della sua sorellastra (Io e te, 2012) mentre David Bowie canta la versione italiana di Space Oddity? Forse no, visto che nel tempo ha mantenuto lo stesso interesse riguardo alle complesse dinamiche che attivano i rapporti umani di pari passo alle trasformazioni della società, spingendosi dentro palazzi liberty di una Roma multietnica dove sbocciano imprevedibili amori (L’assedio, 1998).

Bertolucci 07Il titolo originale di Io ballo da sola è Stealing Beauty che letteralmente significa “Rubando bellezza”. Con il suo cinema Bertolucci ce l’ha regalata la bellezza, quella che ha saputo creare dallo spazio vuoto fluttuante tra una macchina da presa e la realtà prospiciente e, insieme, ci ha regalato cultura come un bene prezioso da spartire con gli altri. L’eccellenza in ogni parte componente, compresa la scelta di musicisti e compositori come Ennio Morricone, Gato Barbieri, Ryuichi Sakamoto o dello stesso Giuseppe Verdi che pervade gran parte del film La luna (1979), alla fine delle cui riprese Bertolucci sposò Clare Peploe, la compagna di tutta una vita. Proprio con Clare, verso la fine degli anni ’70, andò a trovare un ultraottantenne Jean Renoir nella sua casa di Beverly Hills. Alla fine di quell’incontro emozionante, mentre lui e la moglie stavano accomiatandosi, l’anziano maestro gli fece una raccomandazione: “Ricordati, bisogna sempre lasciare una porta aperta sul set perché non si sa mai chi o cosa può entrare da quella porta. E’ questa la bellezza del cinema!”. Forse anche della realtà. Ma per Bernardo Bertolucci c’era differenza tra l’uno e l’altra?

Ornella Magrini

 

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