Ott 212013
 

Carlo Lizzani, uno dei padri del Neorealismo, già a lungo Direttore della Biennale Cinema di Venezia, se n’è andato, in modo improvviso e drammatico. Come già Monicelli, una delle menti migliori, un autore che ha rappresentato al meglio il nostro cinema dell’epoca d’oro, abbandona questo mondo, portando con sé il mistero insondabile della sua tragica decisione.
Era un uomo schivo, in possesso di un grande bagaglio culturale, e riteneva che il cinema dovesse essere innanzitutto impegno civile e presa di posizione politica. Faceva parte di quella generazione che riteneva che l’attuazione di un’opera d’arte si identificasse con un fecondo percorso spirituale ed etico dell’essere umano. Era stato partigiano, a Roma, e dopo la Liberazione, militante del Partito Comunista Italiano, e, successivamente, critico e saggista (autore, tra l’altro, di una pregevole Storia del Cinema Italiano).
Il suo cinema nacque con Rossellini, in pieno neorealismo, con il quale collaborò a più riprese in qualità di sceneggiatore, così come con De Santis e Lattuada: sulla scia degli insegnamenti di questi grandi registi realizzò diverse importanti opere: “Achtung Banditi”, asciutta, esemplare ricostruzione di un episodio della guerra partigiana, ed il mirabile, drammatico “Cronache di Poveri Amanti”, tratto da Vasco Pratolini, ambientato nella Firenze fascista del ’25; successivamente con“Il Gobbo realizzava uno sguardo compiutamente neorealista sulla Roma occupata dai nazisti, descrivendo la figura del leggendario Gobbo del Quarticciolo.
Spaziò poi in molti generi, dimostrando di essere autore poliedrico, dallo spaghetti western, ove si inventò un genere “rivoluzionario” presessantottino, coinvolgendo attori come Lou Castel, icona del primo Marco Bellocchio, che lo diresse nel più ribelle dei suoi film, “I Pugni in Tasca”, ed addirittura Pasolini nel ruolo di un prete rivoluzionario (Lizzani amava affermare che la veste western gli aveva consentito di affrontare tematiche che il cinema cosiddetto “ufficiale” rimuoveva, come le lotte sociali dei contadini e degli ultimi della terra contro i latifondisti) sino ai prototipi dei film polizieschi: prima il misconosciuto “Svegliati e Uccidi”, dove venivano descritte le gesta di Luciano Lutring, il solista del mitra, e sopratutto quel “Banditi a Milano”, capolavoro interpretato da un istrionico Gian Maria Volontè, nei panni del bandito Pietro Cavallero, colto e carismatico, ex comunista disilluso, che con taglio documentaristico, teso e avvincente, ci descriveva la livida Milano di quel tragico periodo, quando quella banda di disperati effettuò molte rapine sino all’ultima, andata male, quando inseguita dalle gazzelle della polizia, si lasciò dietro una allucinante scia di sangue. Il film fondò il genere “Poliziottesco”, che per tutti gli anni settanta ebbe un incontrastato successo di pubblico (meno di critica).
Tomas Milian, nei panni del poliziotto lucido ed inflessibile, che alla fine lo catturerà, diventerà un’icona del genere.
Più tardi, con “La Vita Agra”, tratto da Bianciardi, descriverà genialmente ed ironicamente la milanesità, con l’anarchico Ugo Tognazzi, in una amara e lucida interpretazione, venuto con l’intenzione di far saltare in aria un’azienda chimica responsabile di morti sul lavoro, che verrà risucchiato dal consumismo del boom, integrandosi perfettamente nel mondo della pubblicità.
“Il Processo di Verona” rievocava, invece, la caduta del fascismo con toni da tragedia elisabettiana, vista dalla visuale di Edda Ciano, moglie di Galeazzo Ciano, principale imputato, accusato di alto tradimento dal tribunale speciale della Repubblica Sociale Italiana.

Con “Mussolini: Ultimo Atto”, l’Autore continuò ad investigare la storia, ma certamente, in questo caso, in maniera un po’ didascalica, dando prova di riuscire meglio quando traeva ispirazione dalla cronaca, come in “Storie di Vita e di Malavita”, in cui investigava il racket della prostituzione minorile, e in “San Babila ore Venti: un Delitto Inutile”, ove rievocava l’ambiente dei “picchiatori sambabilini” milanesi, degli anni settanta, traendo ispirazione da un tragico episodio di violenza, mancando però l’obiettivo di approfondire le radici sociali di tale malessere, o in “Crazy Joe” ritratto aspro ed efficace di un piccolo mafioso americano, od anche in “Roma Bene” ottimo ritratto dell’alta borghesia corrotta della capitale degli anni settanta.
Il grande cinema di “fiction” ritornava con “Fontamara” tratto dal romanzo di Ignazio Silone, ove venivano rievocate con lucidità e senza retorica le lotte contadine nella Marsica.
La sua poliedricità lo portava, anche in anni più recenti, a confrontarsi ancora con la cronaca, con “Mamma Ebe”, ritratto di un’inquietante santona.
Molto bello e poetico, “Celluloide”, che rievocava in maniera romanzata le emozioni vissute sul set di “Roma Città Aperta”, descrivendo la difficile genesi di un grande capolavoro.
Il suo ultimo lungometraggio di fiction è “Hotel Meina”, che riportava alla luce ancora un episodio storico, richiamando alla memoria una dimenticata strage nazista sul versante piemontese del Lago Maggiore.
E’ stato anche autore di ottime fiction televisive, ispirate, per lo più, agli eventi storici: ricordiamo, in particolare, “Un’Isola”, la vicenda umana e politica di Giorgio Amendola, “La Donna del Treno”, dramma intimistico, “Maria Josè-L’Ultima Regina”, e “Le Cinque Giornate di Milano”.
L’amarezza, il disincanto, ma, contemporaneamente l’esigenza di un imperativo morale che contribuisse a combattere le ingiustizie sociali gli furono vicini per tutta la vita; ciononostante, egli non deve essere considerato un moralista, bensì un lucido combattente, che, gramscianamente, coniugava il pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà. Dal punto di vista cinematografico, pur protagonista del Neorelismo, non cadde mai nelle trappole espressive del mero realismo socialista, ma fu autore di opere vibranti, complesse, problematiche, ed aperte ad un contributo al dibattito storico, ed agli interrogativi che la Storia tuttora ci pone, in maniera feconda, mai precostituita, mai dogmatica.
Ci mancherà il suo rigore espressivo, la sua tensione ideale, la sua grande capacità di passare dalla Storia alla Cronaca, e dalla Cronaca alla Storia.

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