Ott 192015
 

Vizio di Forma, di Paul Thomas Anderson, con Joaquin Phoenix, Josh Brolin, Owen Wilson, Katherine Waterston,Reese Whiterspoon, Benicio del Toro,: Stati Uniti, 2014, 150 minuti.

★★★★☆

vizioPaul Thomas Anderson è nato nel 1970, e si sta caratterizzando sempre di più, nel corso del tempo, come il vero, autentico erede di Robert Altman, con il quale, peraltro, collaborò. Egli è rimasto talmente colpito da quel periodo storico da realizzare diversi suoi film riferendosi a quell’epoca. Si pensi al bellissimo “Boogie Nights”, che rievocava, con grande efficacia narrativa, l’ambiente dell’industria porno degli anni settanta a Los Angeles.

Non fa eccezione questo, ottimo “Vizio di Forma”, ambientato nella California del 1970, un noir anomalo, tratto dal romanzo omonimo di Thomas Pynchon, del 2009, il misterioso e visionario scrittore americano, che va molto al di là di quanto rappresenta, per descrivere la fine del sogno “hippie”, il trauma dell’America, dilaniata dai conflitti, che perde i suoi sogni, in uno splendido affresco che descrive tutte le contraddizioni di quell’epoca, dalla contestazione studentesca, al Vietnam, alla speculazione edilizia, alla deriva di una generazione.

Intensa, appassionata riflessione su quel periodo storico, il film si snoda attraverso le disavventure del detective Doc “Sportello”, hippie trasandato, zeppo di droga, un vero simbolo del suo tempo, un investigatore a metà tra Philip Marlowe ed un Grande Lebowsky più cupo e pensoso. Una caratterizzazione, quella di Joaquin Phoenix, di grande pregio: questo detective idealista, ma disilluso, stralunato, protagonista di questa opera, che si innesta, come in tutte quelle di Anderson, nella composizione a più voci, in un mirabile puzzle di suoni e di volti. Il regista ha dichiarato, a questo proposito, che come chiunque abbia vissuto quel periodo di grandi slanci ideali, Doc si sente “derubato” di essi, e come nel romanzo, di Pynchon, così nel film c’è una grande tristezza, ove la perdita degli ideali si somma alla perdita della relazione d’amore. Lo sguardo rassegnato, quasi stupefatto del protagonista ricorda quello di Elliot Gould, che interpretava Marlowe ne “Il Lungo Addio” di Robert Altman, pietra miliare del cinema U.S.A. anni settanta.

Tuttavia l’opera non ricorda affatto il visionario, allucinatorio “Paura e Delirio a Las Vegas” di Terry Gilliam, che presenta alcune affinità tematiche: non è l’aspetto “lisergico” a determinare la natura del film , ma la cifra introspettiva, dolente del protagonista, messa in relazione con le grottesche figure umane che incontra nel corso della narrazione, di cui si fa carico la voce di “Sortilege”, spirito guida e musa, amica del protagonista.

Il film inizia con Doc, che sdraiato pigramente su un divano, viene svegliato dall’apparizione improvvisa di Shasta, la ragazza con cui ha vissuto, e che lo ha lasciato per l’immobiliarista Mickey Wolfmann, uno degli uomini più potenti di L.A.; lei gli chiede di investigare su di un presunto complotto ai danni del nuovo partner, lui accetta, ancora innamorato della sua ex, e si trova catapultato in una realtà da incubo, quasi kafkiana, incomprensibile, in cui incontra poliziotti violenti e nevrotici, killer da strapazzo, motociclisti stile “Hell Angels”, facenti parte della neonazista Alleanza Ariana, dentisti che commerciano in droga e danaro, cantanti più o meno falliti, pacifisti intrisi di misticismo, ragazze che praticano una sorta di spiritualismo sessuale, nuovi clienti che gli chiedono di rintracciare persone scomparse, in un caleidoscopio complicato ed affascinante, dove la materia del noir un po’ folle si stempera spesso in una commedia dai toni surreali, creando un intreccio complicato e quasi incomprensibile.

Un’opera di grande suggestione, dolente, profonda, che si conclude nel modo più degno e verosimile, nello spirito dell’epoca che vuole rappresentare: Doc rinuncia ad un enorme premio in denaro, barattandolo con il benessere e la serenità di un amico, che, grazie al suo intervento, salva la vita e viene restituito alla famiglia.

Le note di Neil Young ci accompagnano per ben due volte (con Harvest e Journey Through the Past)  in questa epocale avventura (in una delle quali accarezzando un nuovo breve idillio con Shasta), questo affascinante viaggio che attraversa le contraddizioni dell’America dei settanta, il caos che la contraddistinse, le tensioni ideali, ormai morenti, che la caratterizzarono, la fine del sogno “hippie”, spezzato da Charles Manson, ispiratore della terribile strage di Bel Air, che viene spesso citato, ed il fallimento di Altamont.

Il conseguente incubo reazionario nixoniano trionfa, tra poliziotti violenti ed intolleranti e mercificazione di ogni cosa, in un rappresentazione filmica, a cavallo tra due epoche, quella innocente e sognante degli anni sessanta e quella violenta, paranoica, allucinatoria dei settanta, che diverte, e nello stesso tempo inquieta, confermando lo straordinario talento del suo autore, che realizza un noir politico, raccontando l’utopia e la sconfitta di una generazione.

Recensione di Dark Rider

 Leave a Reply

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

(required)

(required)

*