Gen 182012
 

J. Edgar: Regia: Clint Eastwood, con Leonardo Di Caprio, Naomi Watts, Judi Dench, Armie Hammer, Josh Hamilton, Geoff Pierson, Cheryl Lawson. Usa, 2011, 137 minuti.

★★★☆☆

Con quest’opera affascinante ma controversa Clint Eastwood rievoca uno dei fantasmi dell’America moderna, J. Edgar Hoover (uno straordinario Leonardo Di Caprio), il leggendario e spietato fondatore dell’Fbi, idolatrato da una parte del Paese, temuto ed odiato dall’altra. Un uomo solo, che costruì una gigantesca macchina di potere usando l’illegalità ed i ricatti, e che per quasi cinquant’anni tenne sotto scacco le istituzioni politiche, compresi ben otto Presidenti.
La sua ossessione per il comunismo lo portò a vere persecuzioni contro i movimenti “radical” e sindacali, che lasciarono una lunga scia di violenze e di gravi lesioni dei diritti civili.
Un uomo solo al comando, dallo sconfinato potere, che dalla Prima Guerra Mondiale al Vietnam ha attraversato la storia degli Stati Uniti, ricattando tutti i poteri dello stato, ossessionato dalle sue crociate contro i “liberal”, che considerava nemici della Nazione al pari dei Gangsters: egli combattè infatti il Movimento per i diritti civili di Martin Luther King e le Pantere Nere con intercettazioni illecite, ma fu inflessibile anche con il Ku Klux Klan. Fu anche efficace e determinato avversario del crimine organizzato, al punto da neutralizzare Dillinger ed Al Capone.
Il film tratteggia con efficacia il personaggio, le sue manie, il morboso rapporto di dipendenza dalla madre (Judi Dench): il Regista dipinge il capo dell’F.B.I. come un lucido demone, ma anche un innovatore nei metodi investigativi che sotto la sua direzione fecero enormi passi avanti. Aveva uno schedario aggiornato da una inflessibile e devota segretaria (la brava Naomi Watts) di tutti gli uomini politici, imprenditori, militari, magistrati, che, all’occorrenza, teneva sotto scacco.
Viene anche descritta la sua strettissima relazione, caratterizzata da latente omosessualità, con il suo storico braccio destro Clyde Tolson (Armie Hammer): una delle scene più efficaci del film descrive una furibonda lite tra i due, dovuta alla gelosia di Clyde. Eastwood e lo sceneggiatore Black sono estremamente espliciti e dopo il diverbio avvenuto per l’annuncio da parte di Edgar di un possibile matrimonio con la diva Dorothy Lamour, i due si baciano dopo una lotta furibonda. La descrizione della morte della madre è parimenti forte ed estrema: Hoover, totalmente dipendente da lei e soggiogato dalla sua personalità, ne indossa i gioielli ed i vestiti e scoppia in un pianto dirotto; se non fosse un film di Clint Eastwood penseremmo di assistere ad una scena di Psycho: si sfiora il rischio del ridicolo, ma Di Caprio tiene rigorosamente la barra diritta ed appare perfettamente credibile.
L’opera è complessa ed articolata, rappresenta certamente una approfondita indagine sul rapporto tra “ethos” e potere, ed è efficace nel descrivere come per conquistare quest’ultimo e conservarlo si debba diventare dei veri demoni; il regista esorcizza mezzo secolo di storia americana, descrive la nascita dei dossier e della politica spazzatura, che purtroppo anche noi ben conosciamo, e sottintende che dietro l’autoritarismo c’è spesso una mente malata.
Ma alla lunga il film si rivela troppo frammentario e sfuggente, continuamente alla ricerca di un equilibrio tra passato e presente; le location utilizzate, inoltre, sono uffici e corridoi semibui, aule di tribunale, appartamenti claustrofobici. L’azione è confinata ad un paio di scene: l’irruzione notturna in una tipografia anarchica clandestina ed una sparatoria contro una banda di gangster, abbastanza marginali rispetto alla dinamica del film.
Il rapimento Lindbergh è invece raccontato con partecipazione ed accuratezza, sino al processo contro il presunto colpevole, il tedesco Hauptmann, che sarà condannato a morte, con prove molto incerte, solamente perché considerato straniero e quindi corpo estraneo alla Società, così come l’anarchica Goldman, dopo un grottesco processo alle sue idee, era stata precedentemente espulsa dagli Stati Uniti.
Eastwood, consapevole che quando il cinema si confronta con la Storia spesso rappresenta una parata di maschere di cera, ci mostra, in parallelo alla maschera mortuaria di Dillinger che conserva nel suo studio, i volti invecchiati, quasi immobili, volutamente grotteschi, di Edgar, che detta le sue memorie a dei giornalisti, che lo visitano a turno, e di Clyde: di essi osserva la vecchiaia, il loro persistente attaccamento al potere, la sofferenza per le parole d’amore mai dette, sino all’inesorabile disfacimento.
Il film è dolente, ma calligrafico, a volte forse volutamente reticente, anche per il mistero che tuttora avvolge la vita privata di J. Edgar e, pur costituendo un apologo efficace sulla solitudine del potere, suffragato da una grande interpretazione di Di Caprio, non emoziona a fondo, facendo rimpiangere il pathos, la tensione morale e la drammatica intensità di opere come Mystic River, Million Dollar Baby, Gran Torino.

Recensione di Dark Rider

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