Mag 292014
 

Maps to the Stars, di David Cronenberg. Con Julianne Moore, Mia Wasikowska, John Cusack, Robert Pattinson, Carrie Fisher. Canada Usa 2014 durata 111 min.

★★★½☆

Poster_Maps-To-The-StarsLa giovane Agatha Weiss, ragazza all’apparenza timida e dal volto parzialmente sfigurato, inseguendo la “chimera” hollywoodiana riesce a diventare assistente personale dell’attrice (decaduta) Havana Segrand, donna dalla personalità disturbata e schiava del fantasma della madre morta in un incendio forse da lei stessa causato. Parallelamente, una coppia borghese dell’America bene, deve gestire la personalità del figlio tredicenne Benji, strapagata star del cinema adolescenziale con problemi nascenti di tossicodipendenza. Quando la Segrand rivela al proprio psicologo di aver assunto una collaboratrice dal volto semi-sfregiato, il dottor Stafford Weiss capisce che si tratta proprio della figlia, tornata sulle tracce della famiglia dopo l’esilio forzato in un ospedale psichiatrico, alla ricerca del fratello col quale aveva iniziato ad intrattenere un rapporto dalla propedeutica incestuosa, interrotto dall’incendio da lei stessa appiccato alla propria casa e che è la causa delle ustioni sul volto. Gli equilibri iniziano a scricchiolare ed una spirale di follia prende il sopravvento, fino al crudele e poetico finale. Difficile inquadrare compiutamente il nuovo lavoro di David Cronenberg, soprattutto a causa di un plot contorto che a tratti si arrota su se stesso, nella smania di descrivere i vizi (troppi) e le virtù (pochissime) che soffocano l’opulenta società del benessere attuale, scevra di ogni sentimento ed asservita completamente ad un opportunismo che regola scelte ed esistenze ruotanti attorno al delirio consumistico, ma incapace di mettersi a nudo dinanzi alle proprie debolezze. Da questo punto di vista, Cronenberg prosegue a suo modo il discorso iniziato con Cosmopolis, ma riuscendo stavolta a scandagliare le coscienze affondando il coltello nella piaga (sociale) con foga da quaresimalista, senza risparmiare nessuno e tralasciando accuratamente giudizi morali di sorta, evitando qualsiasi catarsi presunta o tale e lasciando allo spettatore l’assoluta libertà di identificarsi con uno (o meglio nessuno) dei protagonisti. Il regista canadese passa al setaccio tutto il malcostume dell’epoca odierna, criticando lo star-system a tutto tondo: dalle feste (o festini) dove la volgarità impera e l’apparenza è tutto, all’arroganza di Benji, ragazzino ricco e viziato gestito dalla famiglia come una holding, fino all’impietoso ritratto di Havana Segrand (un’ottima Julianne Moore), perfetta nemesi dell’attrice in disgrazia pronta a tutto pur di inseguire il ruolo della vita. In questa spirale di dissociazione, s’inserisce bene la missione di Agatha, schizofrenica ma determinata a ricongiungersi col fratello, sedotta e poi abbandonata dal potere della Segrand, ma in grado di accattivarsi le simpatie di un autista di limousine col pallino del cinema, prima di passare al contrattacco finale. Forse il senso di Maps to the stars risiede nella radice stessa dei mali di Agatha e Benji, loro stessi votati ad un rapporto incestuoso originatosi da un incesto (voluto?) avvenuto tra i propri genitori, scaturigine delle problematiche affrontate dai Weiss nel corso degli anni, rivestendo alla lontana il parallelismo con la teoria del ritorno degli eventi ignorati ma esistenti nel substrato già magistralmente esplicitati in A Hystory of violence, cartina di tornasole del cinema cronenberghiano dell’ultimo decennio. La descrizione degli accadimenti è al solito impeccabile, anche se a livello di sceneggiatura troppa carne al fuoco rischia di nuocere al risultato finale, mentre il ricorso al sovrannaturale ed all’onirico (le visioni di Benji ed Havana) può sembrare pretestuoso ma non appesantisce mai lo script; anche la scelta degli interpreti si rivela azzeccata, con la bravissima Mia Wasikowska nei panni della folle Agatha che se la cava egregiamente dinanzi a sua maestà Julianne Moore, il tutto ingentilito dalla presenza di John Cusack, mentre il manzo Robert Pattinson sta sullo sfondo senza infamia né lode. Cronenberg gira con inappuntabile puntiglio, contornato da fidati collaboratori quali la sorella Denise ai costumi, Howard Shore per la colonna sonora ed il solito Peter Suschitzky alla fotografia, confezionando nell’insieme un prodotto valido che pur con qualche imperfezione di forma lascia impressa più di una riflessione, a cominciare dal contorto prefinale che prelude ad una scena conclusiva dove ciò che (forse) non doveva dividersi, si riunisce, configurando il tutto come un alto momento di cinema concepito appunto da un regista che da sempre fa perno sulla mutazione del corpo e della carne, dimostrando di cambiare l’approccio alla società rispetto al passato. Ora, la furia iconoclasta di Cronenberg si abbatte direttamente sul pensiero moderno, e se la follia di Agatha assume contorni claustrofobici, ciò avviene a causa dell’auto indulgenza della borghesia attuale, incapace di responsabilizzar(si) dinanzi alle proprie nefandezze, così che il male riesca a generare solo altro male. Ed il radicale pessimismo di Cronenberg non poteva rimanere insensibile, davanti a questa ennesima mutazione.

Recensione di Fabrizio ’82

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