Ott 312018
 

Pasolini prima sceltaA 53 anni, nella notte tra sabato 1 e domenica 2 novembre 1975, veniva ucciso Pier Paolo Pasolini. All’Idroscalo di Ostia. Ninetto Davoli ha l’immane compito di riconoscere in quel corpo, bocconi sullo sterrato, l’amico di tutta una vita. Un reo confesso sarà condannato, nemmeno dieci anni di carcere. Oggi, che al tempo dell’omologazione culturale tanto invisa a Pasolini è succeduto quello di una globalizzazione i cui effetti hanno stravolto gli equilibri del pianeta, come potrebbero essere raccontate le utopie, l’intransigenza e le disillusioni di chi fece della poesia e dell’impegno politico un tutt’uno inespugnabile?

A Pasolini piaceva comunicare, condividere, dibattere, avere un rapporto diretto con le persone, come dimostra anche la sua lunga collaborazione con il settimanale comunista Vie Nuove, su cui teneva uno spazio per rispondere ai lettori, (“Dialoghi con Pasolini”). Dal 1960 al 1965 ha risposto a tutti, non solo ai compagni che gli chiedevano un parere su qualsivoglia argomento ma anche a quelli che lo accusavano di essere un pubblico corruttore. All’epoca aveva già raggiunto la popolarità ed erano passati vent’anni dalla sua prima raccolta in versi dedicata alla terra di sua madre, Susanna Colussi, la terra dove le stagioni s’avvicendano “simili alle ombre delle nuvole che passano sui sassi del Tagliamento”. Con Poesie a Casarsa (1942), fulgido esempio di letteratura dialettale (composto in friulano), suscita subito apprezzamenti da parte di un critico come Gianfranco Contini che ne scrive una recensione sul “Corriere di Lugano”. Una pubblicazione in qualche modo eversiva, in un periodo storico in cui il fascismo aveva bandito i dialetti e le espressioni delle minoranze linguistiche per imporre un’italianizzazione sovrana.

usignolo chiesaNato a Bologna il 5 marzo 1922 e laureatosi in Lettere con una tesi su Pascoli, nel 1947 si iscrive alla sezione del partito comunista di San Giovanni di Casarsa e nel ‘49 ne diventa segretario, ma quella militanza è presto malvista dalle autorità locali perché fa troppo breccia tra la gente più umile. Contemporaneamente insegna in una scuola media di Valvasone, a pochi chilometri da Casarsa, e in classe legge Cechov o l’Antologia di Spoon River e invoglia gli alunni ad andarsi a vedere Ladri di biciclette. Saranno i genitori di quegli alunni a firmare un appello al Provveditorato degli Studi di Udine per chiedere che “il professor Pasolini” torni a insegnare, dopo il suo allontanamento dalla scuola a seguito di un rinvio a giudizio per atti osceni in luogo pubblico. Uno scandalo a sfondo omosessuale. Pasolini verrà poi assolto ma la vicenda lascia cicatrici, a cominciare dall’espulsione dal partito: “Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola”. Porterà sempre nel cuore quegli anni di giovinezza a Casarsa, quel mondo arcaico e contadino che si riverbera nelle raccolte di poesie La meglio gioventù (1954) e L’usignolo della Chiesa Cattolica (1958).

Nell’inverno 1950 il trasferimento a Roma con la madre è un esilio, doloroso e tribolato, ma poi gli offre una possibilità di rigenerazione. Piuttosto che venire attratto dalle bellezze classico-barocche della città o dai palazzi del centro dove si governa una Repubblica appena nata, rivolge la sua attenzione alla brulicante umanità del sottoproletariato delle periferie, ancora così estraneo ai modelli della società borghese, la stessa che lo ha espulso inserendolo nella lista dei reietti. Sulla rivista letteraria “Paragone” comincia a scrivere dei ritratti attingendo a questa umanità che diventa poi protagonista di due romanzi pubblicati da Garzanti: Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Malandrini e teppisti che sanno parlare al mondo solo in dialetto romanesco, anime in cui convivono violenza e bontà, innocenza e ferocia. Con Ragazzi di vita viene rinviato a giudizio, dietro intervento diretto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, perché “nella pubblicazione si riscontra carattere pornografico”. Lo stesso pubblico ministero chiede l’assoluzione.

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Tocca un sorprendente successo di vendite con Le ceneri di Gramsci (1957), undici poemetti già pubblicati in varie riviste, densi di straordinario impegno civile e sperimentalismo formale. Di fronte alla tomba di Gramsci, nel cimitero degli Inglesi, conferma la sua vicinanza a quel sottoproletariato di cui ammira più la natura vitale che una coscienza di classe, mentre da intellettuale militante oscilla tra due opposti: essere con o contro l’ideologia marxista in un momento storico lacerato da profonde contraddizioni all’interno della sinistra italiana, alla quale non lesinerà mai dure critiche (altrettanto ricambiate), segno di quell’intransigenza e autonomia di pensiero che resteranno uno dei suoi tratti più distintivi. Non ci sono i ruderi romani della Piramide Cestia nel cimitero di Casarsa dove è sepolto Pasolini, ma un lungo viale di ghiaia bianca protetto da cipressi e circondato da vitigni. “…Ma io, con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita,/ potrò mai più con pura passione operare,/ se so che la nostra storia è finita?”.

religione del mio tempoOltre l’imponente attività di saggista, critico letterario, filologo, giornalista, è attraverso la sua poetica che Pasolini riesce a compiere qualcosa di eccezionalmente nuovo nel panorama della letteratura italiana del Novecento: la creazione di una poesia civile di sinistra, strettamente legata all’utopia di una rivoluzione di cui quel sottoproletariato sarebbe dovuto essere protagonista. Un’utopia destinata a naufragare quando quel popolo, ormai imborghesito, verrà adescato dalle sirene di un edonismo che ne stravolgerà natura e tradizioni. Con La religione del mio tempo (1961), raccolta di scritti tra il 1955 e il 1960 pubblicati sulla rivista “Officina”, punta il dito contro il vuoto esistenziale causato dall’omologazione del neo-capitalismo e dalla perdita di quei valori che avevano alimentato il sogno rivoluzionario. “Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,/ sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:/ tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,/ ridiventa straccio e il più povero ti sventoli.”.

Dopo aver collaborato a sceneggiature e revisioni di dialoghi di molti film, compresi Le notti di Cabiria e La dolce vita di Fellini (avvalendosi del prezioso contributo di Sergio Citti, il suo “consulente parlante”), l’approdo al cinema come autore e regista testimonia un’ulteriore evoluzione del suo percorso artistico e del suo impegno politico: ha intuito che, più della letteratura, il cinema può essere veicolo di denuncia in un’Italia dove il boom economico sta trasformando i processi produttivi e la televisione sta sempre più diventando un mezzo di manipolazione delle masse. Benché legato alla realtà, il suo primo cinema non avrà niente a che fare con la tradizione classica del neorealismo italiano, getta le basi di uno stile nuovo che lui stesso definirà “naturalismo espressionistico”. Quel cinema, vivificato dal potente bianco e nero della fotografia di Tonino Delli Colli, fa subito scandalo.

E’ Il Vangelo secondo Matteo (1964) a decretargli la fama internazionale. Da “marxista indipendente” riesce a rinnovare la biblica coscienza del sacro e a immortalare la portata rivoluzionaria di un Cristo all’interno di una società dilaniata dallo scontro tra le ragioni degli ultimi e l’arroganza dei potenti. Un Cristo del tutto estraneo agli orpelli dell’iconografia tradizionale, che viene criticato da certe frange della sinistra più ortodossa, ma che sarà sostenuto da quella parte della Chiesa più sensibile ai messaggi del Concilio Vaticano II e non solo perché, nei titoli di testa, Pasolini ha sentito l’urgenza di imprimere una dedica a papa Roncalli, scomparso l’anno prima: “Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII”. Durante la proiezione al Festival di Venezia (il Vangelo si aggiudica il Gran Premio della Giuria), un gruppo di fascisti riserva al film abiette contestazioni. Non fu la prima volta e non sarà l’ultima.

accattone verticalePer Accattone andò peggio in occasione della prima nazionale al cinema “Barberini” di Roma. Giovedì 23 novembre 1961, ore 7 di sera. Devastante irruzione in sala, aggrediti gli spettatori, interrotta la proiezione. Di rimando, all’ultimo spettacolo della sera stessa, accorre una folla di persone che accoglie con un lungo applauso quel folgorante esordio alla regia che sembra aver fatto sua l’assoluta semplicità espressiva della Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer. L’universo degli emarginati narrato con un inesauribile sentimento di pietas sarà oggetto di ostracismi da parte di autorità e benpensanti, nonché il primo film italiano vietato ai minori di 18 anni. Vietato prima ai 18 e poi ai 14 anche Uccellacci e uccellini (1966), dove Pasolini intraprende un viaggio per denunciare allegoricamente la crisi delle ideologie. Una fiaba picaresca con protagonisti un Corvo parlante (l’intellettuale borghese comunista) che tenta inutilmente di far presa sulle coscienze di due proletari. Accanto alla disarmante ingenuità di Ninetto Davoli, il funambolismo dell’immenso Totò si aggiudica un premio al Festival di Cannes.

Nel 1971, dal primo canto del Paradiso trae il titolo per la sua ultima raccolta di poesie Trasumanar e organizzar. Ormai non crede più che la poesia sia “il centro della terra”, ciononostante non rinuncia a considerarla un gesto dell’agire, visto che per lui tra poesia e impegno politico c’è sempre una coincidenza assoluta: “…sappiate che son qui pronto/ a fornire poesie su ordinazione: ordigni.”. Subito dopo dalla pagine del Corriere della Sera polemizza a raffica contro lo scempio prodotto dall’omologazione culturale (la mutazione antropologica della società italiana), attraverso un’ingente quantità di articoli poi raccolti nei volumi Scritti corsari (1975) e Lettere luterane (1976). “Siamo tutti in pericolo…”, dichiara Pasolini nell’intervista rilasciata a Furio Colombo il pomeriggio di quel 1° novembre 1975, a poche ore dalla fine, quando sta per uscire nelle sale l’ultimo suo film.

Prima di ottenere il nulla osta con il divieto ai 18 anni, Salò o le 120 giornate di Sodoma viene bloccato dalla censura per le sue: “aberranti e ripugnanti immagini di perversione sessuale”. Il sesso come spietata metafora del rapporto tra il Potere e coloro che gli si sono sottoposti. E il Potere comprende tutti: casta, clero, economia, giustizia. Un abisso angosciante, anni luce lontano dall’esaltazione vitale di quel mondo astorico che popolava la “Trilogia della Vita” (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una Notte). Mentre Salò è presentato a Parigi il 22 novembre 1975, gli italiani devono aspettare il 10 gennaio successivo, ma poco dopo viene ritirato e sequestrato. Pasolini è già morto.

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Da allora si è scritto tanto su di lui, così come al cinema si sono raccontati gli ultimi momenti della sua vita (Pasolini, Abel Ferrara, 2014; La macchinazione, David Grieco, 2016), perché la verità su quella maledetta notte all’Idroscalo s’agita ancora dentro un crogiolo di retroscena torbidi e inquietanti. A 43 anni dalla sua scomparsa, in un’epoca in cui latitano le figure di intellettuali parimenti e così a lungo impegnati nella vita politica, culturale e sociale di un paese, Pier Paolo Pasolini continua ad attrarre l’interesse delle giovani generazioni per l’irriducibile libertà di pensiero, l’onestà intellettuale e per la forza delle sue visioni anticipatrici. Come esortò Moravia durante l’omaggio funebre a Campo de’ Fiori, i poeti sono sacri e dovrebbero essere protetti, custoditi. Pasolini resta prima di tutto un poeta, anche il suo cinema e la sua narrativa sono sempre poesia, seppur traslata in altre forme e linguaggi. “… è quello che si dice un uomo senza fede,/ che non si conforma e non abiura:/ giusto quindi che non trovi dove vivere./ La vita si stanca di chi dura./ Ah, le mie passioni recidive/ costrette a non avere residenza!”.

Ornella Magrini

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