Gen 262017
 

Silence. Regia di Martin Scorsese. Cast: Adam Driver, Andrew Garfield, Liam Neeson, Ciarán Hinds, Issey Ogata, Tadanobu Asano, Shinya Tsukamoto, Ryô Kase. Produzione USA. Durata 161 min.

★★★★☆

locandina-silence-highTratto dall’omonimo romanzo di Shukasu Endo e ambientato nel Giappone del XVII secolo, “Silence”, l’ultima tentazione di Scorsese, è un progetto inseguito per più di 15 anni in cui il dissidio interno del regista riguardo la fede si sposa con le tematiche affrontate dallo scrittore nipponico.

Racconta la persecuzione e il martirio dei “Kakure Kirishitan” attraverso gli occhi di due padri gesuiti portoghesi, Sebastião Rodrigues (Andrew Garfield) e Francisco Garupe (Adam Driver) giunti in Giappone alla ricerca del loro mentore missionario, Padre Ferreira (Liam Neeson) di cui si sono perse le tracce tra insinuanti sospetti di abiura. Infatti le manovre per estirpare il cristianesimo dalla terra Nipponica perpetrate ad opera dell’inquisitore Inoue Masahige, sembrano trovare più efficacia nel far rinnegare la fede ai Padres che nel cruento rituale a cui vengono sottoposti i credenti, trasfigurati nella sopportazione dei supplizi loro inferti, in una sorta di nuovi martiri al pari delle persecuzioni cristiane d’epoca romana. I due verranno accompagnati nel viaggio da un personaggio controverso, Kichijiro il quale, a metà tra la figura di Caronte e quella di Giuda, rinnega più volte il suo Dio per poi cercarne spasmodicamente l’assoluzione.

Puntualizziamo subito che questo film non è per tutti. Sicuramente non è per uno spettatore sbrigativo o alla ricerca di una visione spettacolare e dinamica (alla Mel Gibson per intenderci). Piuttosto è un film che induce alla riflessione e quindi si avvale di tempi dilatati, quasi al limite della sopportazione, quale condizione necessaria per essere interiorizzato e successivamente elaborato. È un lavoro a lento rilascio che richiede uno sforzo enorme allo spettatore. Ma è anche di una bellezza e una potenza imbarazzanti. Una regia impeccabile, coadiuvata dalla suggestiva fotografia di Rodrigo Prieto e  dalle scenografie firmate dal sodalizio Lo Schiavo/Ferretti (marchio di fabbrica da anni del cinema di Scorsese), mette a fuoco le scene con una precisione certosina, indugiando sui particolari piuttosto che dare spazio alla destrezza nell’utilizzo della macchina da presa, dando vita a dei veri e propri affreschi.

Il motivo conduttore rimane comunque un percorso trasversale che analizza il dubbio in relazione alla fede e alla verità, sia dal punto di vista personale che omnicomprensivo. Quanto una religione può arrogarsi il diritto di esprimere verità incontrastabili da altre dottrine e quanto la fede deve essere perseguita anche a scapito di atroci sofferenze inflitte? È questo il nodo da sciogliere che Scorsese rimpalla da un soggetto all’altro per tutta la durata del film. Soprattutto ci induce ad una riflessione sui conflitti religiosi di ogni periodo e ad ogni latitudine. Date a Scorsese ciò che è di Scorsese e cioè la rappresentazione della violenza. Cosa c’è stato (e cosa c’è tuttora) di più violento sul piano fisico e soprattutto psicologico, della religione imposta? Soprattutto quando poi, grazie a mire espansionistiche, viene usata per insinuarsi nel tessuto sociale di una cultura della quale non rispetta o addirittura ne rinnega le usanze, ponendosi con superiorità, come depositaria unica della verità e quindi non da una prospettiva paritaria che avrebbe invece potuto dare vita ad uno scambio e una crescita comune. Le critiche mosse al regista, tacciato di faziosità nei confronti dei Gesuiti, sembrano non tener conto dell’obiettività con la quale Scorsese rappresenta un popolo che si oppone, per mezzo dei propri inquisitori, all’egemonia cristiana in maniera ferma e risoluta ma non certo impulsiva, ne priva di pietas. Anzi, il ragionamento e la logica sono alla base delle loro scelte, come quella di far abiurare i Padri gesuiti al fine di minare la credibilità della fede cristiana.

Il silenzio, infine, quel silenzio che sembra richiamare l’urlo del Cristo sulla croce abbandonato dal Padre, è la metafora di un Dio assente o presente in maniera lacerante? Ogni chiave di lettura è lecita e personale. Così come lo è l’approccio stesso alla spiritualità.

Recensione di Claudia Giacinti

 

 

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