Dic 102021
 

Lo spirito del jazz è a New York. Lo si sente respirare nei bar del Village, nei locali storici di Harlem, nei club e nelle sale di registrazione di Brooklyn. Le sue vibrazioni nascono dalla strada, la sua energia da chi la attraversa ogni giorno.
New York è ancora la città più cosmopolita del mondo. Il suo passo, la sua energia non si fermano mai. Il suo pulsare vibra come una poliritmia jazz.
Il documentario “THE SOUND OF NEW YORK – Music today and tomorrow”, ideato e diretto da Gloria Rebecchi, è il titolo della serie di 10 documentari monografici dedicata ad altrettanti musicisti della scena jazz newyorchese. Abbiamo raggiunto la regista, che ha risposto ad alcune domande sulla realizzazione di questo imperdibile documentario, finalmente disponibile su Sky Arte. 

MANIFESTOCome nasce l’idea di questo documentario?

Circa 25 anni fa vidi assieme a mio padre, che è musicista, la serie di Wynton Marsalis che raccontava la storia del jazz: mi piacque molto ma notai che non erano presenti filmati e interviste con i protagonisti. Questo perché, essendo un documentario storico, si riferiva al passato. Così mi dissi che un giorno avrei voluto raccontarle io queste storie, facendo sentire la voce degli artisti che si esibiscono nell’epoca che stiamo vivendo.

L’idea della serie nasce quindi dal desiderio di raccontare nell’intimo le personalità artistiche dei musicisti, e dalla volontà di esplorare come attraverso la loro musica riescano a toccare le corde emotive dell’ascoltatore. Avevo la percezione che questi artisti avessero un background culturale molto complesso, dalle radici profonde e lontane, ma allo stesso tempo estremamente contemporaneo, con una forte identità. Non bastava ascoltare la loro musica, leggere, informarsi, incontrarli, bisognava entrarci dentro.

The Sound of New York” ha preso forma nel tempo, concretizzandosi quando era il momento. Ho fatto tanti viaggi a New York, poi ho messo insieme tanti elementi, anche quello finanziario. Ho messo da parte i soldi, l’attrezzatura, l’esperienza e soprattutto ho trovato due amici (Federico Di Giambattista e Andrea Fabiani di Limited Music Trade) che hanno creduto in me e nel progetto, e mi hanno dato una mano sia nella produzione che nel sound design. Avevo accanto mia sorella a darmi coraggio, una PR per natura, l’ho trascinata con me e siamo partite insieme.

Il progetto è stato concepito come serie da circa 30 minuti a episodio ma ne esiste anche una versione docufilm di poco più di un’ora e mezza, quale versione secondo te è più riuscita?

Sicuramente la serie, è quella di cui vado più fiera. Le dieci monografie permettono di conoscere da vicino ogni artista: la storia, il percorso educativo e soprattutto il pensiero e la visione della vita.

Il documentario, invece è stato necessario produrlo per le proiezioni ai festival e per le tv. Lo trovo comunque interessante perché mette a confronto le diverse identità degli artisti.

NYC è stata, è e sarà sempre la culla della nuova musica jazz. Da dove deriva questo primato, cosa la rende diversa dalle altre città dove la musica in America ha comunque caratterizzato il movimento culturale cittadino: penso a New Orleans, Los Angeles, Memphis o Detroit…

New York è incredibile perché è la culla di molte altre cose, oltre alla musica. La sua energia ha il potere di tirar fuori dei potenziali che probabilmente in altri luoghi rimarrebbero sconosciuti. Per poterci sopravvivere devi trovare la tua strada, devi tirar fuori tutto quello che hai.

Per quanto riguarda il “jazz” (termine che in Italia e forse anche in Europa viene usato per indicare un genere che invece non vuole definizioni) a New York esiste un collettivo molto ampio e unito. Tutti ci arrivano con lo spirito di trovare quel potenziale, con lo scopo di incontrare i migliori musicisti al mondo, per far parte di una comunità che porta avanti l’eredità di chi li ha preceduti e allo stesso tempo vuole lasciare un segno nel mondo contemporaneo.

Quali tra gli artisti incontrati e intervistati ti ha maggiormente impressionato?

Direi proprio tutti, a prescindere dalle qualità musicali. Damion Reid è un caro amico e lo ringrazio perché mi ha aperto molte porte e mi ha dato degli ottimi suggerimenti. Sentirlo parlare in maniera così intima e vitale di tutto il suo percorso di vita mi ha colpito molto. Mark Turner è un grande musicista ma anche un maestro di vita. Stefon Harris mi ha colpito per la sua energia, per le sue idee rivoluzionarie soprattutto nel diffondere il concetto di empatia come soluzione a molti dei problemi della nostra società. Bilal per tutto il tempo che mi ha dedicato e per essersi messo al pianoforte cantando le canzoni che volevo sentire. Vicente Archer per la sua amicizia e disponibilità, da grande contrabbassista quale è sa stare al centro di ogni cosa, ascoltare e portare il suo contributo determinante. Theo Crocker è uno spirito nuovo, libero. Potrei continuare per ore, includendo anche molte delle persone che appaiono accanto ai protagonisti.

La collaborazione con Ashley Kahn è sicuramente un valore aggiunto e anche un’ulteriore dimostrazione dell’autorevolezza del progetto. Com’è nata? Lui sembra sia disponibile che stimolante, è così o e solo una mia impressione data dalla mia profonda stima per un così profondo conoscitore della materia?

Ashley è un grande, davvero! E’ stato senz’altro il valore aggiunto di tutto il progetto. L’ho incontrato per caso a Umbria Jazz e dopo poche settimane gli ho parlato del progetto, si è appassionato subito incoraggiandomi su tanti aspetti, anche a lavoro finito, come la promozione e la diffusione dei documentari.

La tua prima sensazione entrando in un tempio come il Village Vanguard e, di contro, cosa si prova ad entrare nelle case dei musicisti coinvolti nel progetto.

Sono entrata per la prima volta al Village Vanguard tanti anni fa, in fondo alla fila come tutti sperando di trovare posto. Ma l’emozione di entrare con Mark Turner è tutta un’altra cosa, lo senti come un privilegio. Visitare invece i loro spazi privati è come avere una lente di ingrandimento in cui riesci a vedere e sentire molto di più.

Ci sono artisti che non sei riuscita ad incontrare e intervistare, o magari che ti riservi di inserire in una seconda (auspicabile) stagione?

Certo! Posso dirtene due che non sono stati disponibili in quel periodo: Robert Glasper e Steve Coleman.

Cosa ti rimane professionalmente e umanamente di questa esperienza?

Sono tantissime le cose che rimangono. Quello che ognuno di loro ha in comune e mi ha trasmesso è la dedizione assoluta a ciò che fa, oltre ad una estrema umiltà.

Sono rimasta molto sorpresa per l’interesse che la serie ha suscitato. Il primo ad avere acquistato la serie è stato Quincy Jones che l’ha voluta promuovere per il lancio del suo canale Qwest TV. Contemporaneamente sono arrivate Mezzo, Sky, Stingray ed emittanti da tutto il mondo. Ora sono felice che finalmente si possa vedere anche in Italia su Sky Arte.

Quali sono i tuoi attuali progetti? cosa bolle in pentola?

Ci sono molte idee e alcune proposte avviate… Aspetto solo che l’epidemia ci permetta di tornare ad una vita normale.

Trailer in lingua originale: https://www.youtube.com/watch?v=qtMs4ucr3Jg

intervista di Fabrizio Forno

  One Response to “The Sound of New York: Intervista a Gloria Rebecchi”

  1. Ma su una cosa gli eroi di opere famose sono assolutamente d’accordo: il dolore di un sentimento non reciproco non può essere guarito né dal tempo né da nuove relazioni. Tutto accade proprio come https://filmaltadefinizione.tube/storico/ nei film.

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