Set 242010
 

Venezia Lido, 1 – 11 settembre 2010

La Mostra del Cinema è stata quest’anno organizzata nel segno della sobrietà, nello spirito del tempo della crisi finanziaria.
La stessa scelta dei titoli, soprattutto nelle sezioni collaterali, si rivolge essenzialmente all’interiorità, agli affetti, alle crisi esistenziali o familiari.
Ciò nonostante la Presidenza della Giuria è stata affidata a Quentin Tarantino, che continua imperterrito nell’omaggio al nostro cinema di serie b degli anni sessanta/settanta, trascurando il nostro glorioso cinema d’Autore di quegli anni e che ha comunque favorito la presenza di opere cinesi e giapponesi dal grande impatto visivo nonché l’assegnazione del Leone alla carriera a John Woo, maestro del cinema d’azione.
Naturalmente la Mostra, coordinata ancora dall’ottimo Marco Muller, ha presentato come di consueto un variegato panorama di opere di buon livello di molte cinematografie, dando la possibilità allo spettatore di scegliere tra una vasta gamma di opere, nella sezione principale e nelle rassegne collaterali. Accanto ad opere fortemente visionarie dunque si sono potuti vedere anche numerosi films rarefatti ed intimisti.
Rispetto ad altre edizioni, l’elemento divistico è stato meno presente e sulla passerella hanno sfilato meno star che in passato; paradossalmente eventi culturali, ad esempio le conferenze stampa o più semplicemente altre iniziative di stampo goliardico, erano spesso allestite ed organizzate al di fuori del Palazzo del Cinema, in particolare all’Hotel Excelsior, ed avevano la finalità di conferire un po’ di verve ad un’atmosfera decisamente compassata.
Ma veniamo al percorso da noi effettuato alla Mostra: proviamo a descrivere le opere viste durante i giorni in cui ci è stato possibile essere presenti, cercando di privilegiare, ove possibile, quelle meno scontate.

El Pozo, Regia di Guillermo Arriaga, con Humberto Berlanga, Francisca Urquieta

Produzione: Messico, 2010

★★★☆☆

Lo scrittore/regista Guillermo Arriaga è uno dei migliori esponenti della nuova letteratura sudamericana. Conosciuto il regista Alejandro Gonzales Inarritu, formerà un sodalizio artistico a partire da Amores Perros, scrivendo numerose sceneggiature, compreso quella di 21 Grammi e Babel. Nel 2008 la sua prima regia, il suggestivo The Burning Plain, in concorso a Venezia 65.
In questo dolente cortometraggio (solamente 8 minuti) ci rappresenta una piccola storia ambientata nel 1914, nel deserto messicano del Coahuila .
Sergio è un anziano contadino, che con la moglie si prende cura dei nipotini, i cui genitori sono stati uccisi durante la Rivoluzione. Il più piccolo cade in un pozzo, ferendosi gravemente; Sergio inutilmente tenta di tirarlo fuori.
Manda gli altri nipoti a cercare aiuto, ma essi si imbattono in un gruppo di Rivoluzionari che li reclutano; disperato, Sergio decide di porre fine alle sofferenze del nipotino. Con pochi, drammatici tratti, Arriaga mette in luce le piccole tragedie della gente comune, a confronto con i grandi sommovimenti della storia. E lo fa con un sommesso lirismo e con esemplare capacità narrativa, riscuotendo un mare di applausi in sala.

Malavoglia, regia di Pasquale Scimeca. Con Antonio Ciurca, Giuseppe Frullo, Omar Noto, Greta Tomaselli, Doriana La Fauci

Produzione: Italia, 2010

★★★☆☆

Pasquale Scimeca, il valoroso regista di Placido Rizzotto, torna con una rilettura in chiave contemporanea del capolavoro verghiano. Laddove Luchino Visconti con “La terra Trema” realizzava un film in un bianco e nero maestoso e in stretto dialetto siciliano, capolavoro del neorealismo, il regista palermitano racconta la vicenda della famiglia siciliana protagonista dell’Opera letteraria in maniera sommessa e composta, utilizzando splendidi colori, soprattutto nelle scene della tempesta in mare, e nella figura di Ntoni Malavoglia, figlio ventenne che compone canzoni demenziali sperando di apparire in Televisione, fotografa la condizione esistenziale dei giovani d’oggi, privi di prospettive, e la loro disperazione morale frutto della totale mancanza di un’identità. Utilizzando bravi attori siciliani sconosciuti, realizza quasi un moderno affresco di vita della povera gente. E lo fa utilizzando soprattutto la fascinazione dell’immagine, e dialoghi scarni che suggeriscono il senso della suggestione, lanciando, attraverso gli avvenimenti quotidiani descritti, un grido d’allarme sulla solitudine e l’emarginazione sociale dei giovani d’oggi, in particolare di quelli del Sud.
In realtà la famiglia attraversa molte traversie, ma non perde mai la speranza. Applausi a scena aperta, e commozione del Regista e degli interpreti, tutti presi dalla strada. Questa attualizzazione del romanzo capolavoro del Verismo sostanzialmente funziona, e la conferma proviene dal trionfo di critica e di pubblico ottenuti dopo pochi giorni anche al Festival di Toronto; l’autore rende il dialetto siciliano comprensibile, realizzando un’opera tragica nella sua essenza, ma anche pervasa dalla speranza, ove s’intravede una Sicilia desiderosa di riscatto. La produzione, cui ha partecipato anche Cinesicilia, con capitali isolani, ne è senza dubbio un simbolo.

Ovsianky (Silent Souls), regia di Aleksei Federchenko. Con Ygor Sergeyev, Yuriy Tsurilo, Yuliya Aug, Victor Sokhorukov

Produzione: Russia, 2010

★★★★☆ Dalla Russia proviene uno dei films più belli del Festival, Ovsianki (gli Zigoli) del regista Fedorchenko, denso di spiritualità e di profondità interiore, che ha lasciato veramente il segno.
Vi si descrive la vita dei Merja, comunità ugro-finnica , presente nei Paesi Baltici, di cui si stanno perdendo le tracce. Il protagonista è un fotografo della cartiera locale, che riassume un po’ la filosofia di questa etnia. Egli ci spiega che i volti dei Merja sono inespressivi, ma il silenzio esprime la loro poetica, la loro religione senza dei, ma che crede nell’amore e che vorrebbe che essi morissero nell’acqua; essi, però, non possono farlo volontariamente, perché sarebbe come precipitare nel paradiso superando irrispettosamente gli altri.
Il fotografo ha perso la amatissima moglie, morta giovane, e con il più caro amico si dirige verso il fiume portando il cadavere di lei, agghindato a festa e rivestito di una coperta, e una gabbia con una coppia di zigoli, una sorta di piccoli passeri, che diventano testimoni del dramma. Il viaggio diventa iniziatico, egli narra dolcemente, perché così vuole la tradizione, particolari della loro vita intima all’amico, che a sua volta ha ricordi della donna che tiene per sé, in quanto, s’intuisce, ha fatto parte della sua vita affettiva, conoscendo, tra l’altro la circostanza che ella non fosse pienamente innamorata del marito, ma semplicemente condiscendente. Arrivati in riva al fiume, accendono una pira dando fuoco al corpo della donna, per poi consegnare le ceneri alle acque, mentre il volto del fotografo esprime totale e desolata disperazione. Successivamente, i due incontrano due donne, con le quali goffamente si intrattengono sessualmente, nel ricordo della scomparsa. Bello e dolente, il film si snoda con lentezza poetica, quasi un road movie dell’anima, sino alla tragica e prevedibile fine, che però arriva a dare un senso quasi mistico alla conclusione di quest’Opera, che rappresenta il grande ritorno del cinema russo e che avrebbe meritato molto più del premio minore ottenuto. Straordinari gli interpreti, con i loro silenzi, molto più eloquenti di molti discorsi, toccanti le scene di vita della giovane donna, dolorosamente sottomessa al marito.

La Passione, regia di Carlo Mazzacurati. Con Silvio Orlando, Kasia Smutniak, Giuseppe Battiston, Corrado Guzzanti, Cristiana Capotondi, Stefania Sandrelli

Produzione: Italia, 2010

★★½☆☆
Notte Italiana e de La giusta distanza qui sembra essersi preso una piccola vacanza creativa, realizzando una storia edificante in cui solo chi cade può risorgere, ed in particolare lasciandoci intuire che Dubois siamo noi, è il nostro paese in crisi che ha forte ansia di riscatto.

Detective Dee e la Fiamma Fantasma, regia di Tsui Hark. Con Andy Lau, Carina Lau, Li Bingbing, Tony Leung Ka Fai
Produzione: Cina, 2010

★★★☆☆

Questa spettacolare e sorprendente pellicola del cinese di Hong Kong Tsui Hark si svolge al tempo della dinastia Tang, e rappresenta certamente una delle più belle ed originali opere viste in concorso alla Mostra del Cinema.
Vero testo di filosofia politica, che gioca sfrenatamente con l’immaginario fantastico, il film è pieno di combattimenti con la spada ed il kung fu e descrive con dovizia di particolari magie, malefici, animali parlanti, con trovate inesauribili.
Siamo nel 690 a.c., sta per salire al trono la bella ed altera Wu Zeitan, che sarà la prima imperatrice della Cina: per l’occasione ha fatto costruire davanti al Palazzo Imperiale una enorme statua del Budda. Prima della cerimonia, però, cominciano a verificarsi strani fenomeni di autocombustione di diversi dignitari.
Essendo poco propensa a ritenere ciò una vendetta divina, la futura Imperatrice ricorre al Magistrato Di Renie (in inglese Dee), suo antico nemico, al fine di investigare su tali incomprensibili avvenimenti. Dopo inenarrabili peripezie, l’abilissimo e sprezzante Investigatore verrà a capo del mistero, salvando il trono minacciato da un complotto.
L’opera è un forte apologo morale sul Potere e sulla Giustizia, che si conclude filosoficamente: l’uno può trovare fondamento esclusivamente nell’altra.
Ma un grande talento visionario come Tsui Hark non si accontenta di ciò: egli costruisce la storia in funzione della cerimonia di incoronazione dell’Imperatrice, ed arriva a tale evento con una potente spettacolarizzazione della narrazione filmica, imitando palesemente il cinema del grande maestro John Woo.
Nel finale la caduta della statua del Budda metterà in pericolo la cerimonia, ma tutto si risolverà per merito del geniale Magistrato, che lascerà l’Imperatrice ottenendo la solenne promessa di governare il Paese secondo Giustizia. Il crollo della colossale statua (il riferimento sembra proprio rivolto alle Torri Gemelle) viene visto come terribile monito per la stabilità del potere, che potrà sopravvivere non nell’arbitrio, ma nel solco del Diritto; dal Caos nascerà l’Ordine, in un’opera che unisce sfrenata fantasia e notevole capacità di riflessione politica, per merito di un Eroe portatore della razionalità, mediante la quale sconfigge le forze delle tenebre, e del senso della giustizia.

Post Mortem, regia di Pablo Larrain. Con Alfredo Castro, Antonia Zegers.
Produzione: Cile, 2010

★★★★☆
Questo bellissimo, raggelante film di Pablo Larrain, già autore del notevole Tony Manero, racconta la storia del terribile golpe cileno del 1973, vista dagli occhi delle persone comuni. Lo stesso Regista ha raccontato più volte che il ricordo di quei giorni tragici vive in ogni cileno allora presente, e viene ossessivamente raccontato da continui racconti.
Vi si narra di Mario (un eccellente Alfredo Castro), funzionario dell’obitorio di Santiago, uomo senza qualità, che si trova, del tutto indifferente alle vicende del suo Paese, a vivere in prima persona quegli avvenimenti, e del suo compulsivo amore per Nancy, una scialba ballerina di un locale di periferia, macilenta ed inespressiva (la bravissima Antonia Zegers); la donna subisce il suo interessamento, non respingendolo, al fine di acquisire piccoli vantaggi.
La tragedia del Cile, nel frattempo si compie, Mario sente gli spari per le strade mentre fa la doccia, non si scompone più di tanto, si reca a casa della donna, sua vicina, e la trova deserta e totalmente devastata, in quanto i suoi familiari erano attivisti della Sinistra; andando poi al lavoro, trova mucchi di cadavere che deve rigorosamente catalogare, rendendone conto all’Esercito cileno, un Ufficiale del quale esalta il suo servizio, lusingandolo.
L’uomo è fiero della sua promozione sociale, sebbene mantenga un barlume di umanità: tenta infatti, insieme ad una dottoressa dell’obitorio, di salvare un ferito, che troverà morto la mattina seguente, assieme all’infermiera che l’aveva accolto, ma solamente la dottoressa si ribellerà, gridando all’infamia.
La sua gelida inespressività subirà un lieve soprassalto solamente davanti al cadavere di Salvador Allende, sottoposto ad autopsia al cospetto dello Stato Maggiore, ma non sfocerà in alcuna ribellione.
Tornato a casa, scoprirà che la donna da lui amata si è rifugiata nella sua cantina, le porterà cibo, ma quando si accorgerà che lei ha dato rifugio al suo amante socialista, li murerà entrambi vivi, lasciandoli morire di fame, compiendo un atto che sancisce la sua completa disumanizzazione.
Il film rappresenta una grande opera, forse la più bella che abbiamo avuto occasione di vedere alla Mostra del Cinema, fortunatamente premiata con una Osella; molto raramente un Regista ha saputo raccontare così efficacemente, ma con toni totalmente sommessi, il disastro morale del suo Paese.
Forte atto d’accusa contro la Dittatura, ma anche contro l’ignavia morale, il disinteresse che le spianano la strada, l’Opera sottolinea con tratti sapienti l’incapacità delle forze democratiche, prigioniere di un astratto verbalismo, di farsi ascoltare dalla gente comune, descrivente le lunghe ed inutile riunioni dei sostenitori di Unidad Popular. E’ inoltre, realizzata con vivo realismo, e delinea sottilmente la vita metodica e disperata dei protagonisti, che improvvisamente scoppiano entrambi a piangere per la loro desolata solitudine, immergendo lo spettatore in un’atmosfera sordida e malata che rimarrà viva nel nostro ricordo.

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L’esito della Rassegna del Lido, che ha premiato Somewhere di Sofia Coppola, che non abbiamo avuto ancora l’opportunità di vedere, è stato deludente per il Cinema italiano che si presentava in forze. Proteste si sono levate da nostri registi, giornalisti ed operatori dello Spettacolo, che hanno accusato Quentin Tarantino di non essere imparziale, e di nutrire pesanti pregiudizi sul cinema italiano. Sospendiamo il giudizio, perché se da una parte, i films che abbiamo avuto l’occasione di vedere, La Passione e 20 Sigarette (per il quale rimandiamo alla recensione del film del mese su Slowcult, e che comunque ha avuto marginali riconoscimenti), pur nella loro sincerità di fondo, non ci sono sembrati gran cosa, restiamo convinti che Noi Credevamodi Mario Martone, affresco di storia risorgimentale e La Solitudine dei Numeri Primi di Saverio Costanzo, opera oscura ma intensa, avessero le carte in regola per competere, mentre La Pecora Nera di Ascanio Celestini è stato considerato di matrice prettamente teatrale. D’altro canto, nessuno delle opere più significative per la critica, su alcune delle quali abbiamo riferito le nostre impressioni, ha riportato riconoscimenti significativi.
Rimane l’endemica crisi del Cinema Italiano, che secondo il giurato Gabriele Salvatores (cui è stato risposto molto polemicamente da Martone e Bellocchio) è privo di appeal fuori dai nostri confini, in quanto fortemente autoreferenziale. D’altro canto, un film fortemente divisivo ma solidamente costruito come Vallanzasca di Michele Placido, non è stato fatto partecipare, mentre, probabilmente, quel tipo di linguaggio filmico avrebbe potuto affascinare il Presidente della Giuria Tarantino. Qualunque sia stato l’esito, Venezia rimane comunque, nell’ambito della cultura cinematografica, l’evento più importante del nostro Paese e qualsiasi interferenza politica sulla sua struttura organizzativa, magari con l’intenzione di tutelare il Cinema italiano creando una sorta di Minculpop, avrebbe l’effetto di squalificarci davanti al mondo intero.

Recensione di Dark Rider

Foto di Lovely Rita

  One Response to “Venezia 67–Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2010: L’amara sconfitta del Cinema Italiano”

  1. […] diversissima, l’autrice realizza con questa nuova opera, vincitrice del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia 67, un apologo sulla solitudine umana, utilizzando un linguaggio certamente incompiuto ma a tratti […]

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