Apr 202016
 

Artista tra i più poliedrici della scena italiana contemporanea, Stefano Saletti si muove a suo agio tra le acque della sperimentazione: chi scrive lo ha visto esibirsi nelle situazioni più disparate, dalla cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma con una particolarissima versione dei Carmina Burana fino al Dal Verme, piccolo tempio della musica underground capitolina, dove ha accompagnato con i suoi strumenti etnici il set di Rinus Van Alebeek, eccentrico manipolatore di mangianastri ed elettronica.
Il pane quotidiano di Saletti, oltre agli strumenti della tradizione musicale mediterranea (bouzuki, oud, tzouras), comprende infatti chitarra elettrica, acustica e classica, pianoforte, percussioni, campionatori e programmazioni al computer.

Stefano Saletti - Foto di Lorenzo Marchetti

Stefano Saletti – Foto di Lorenzo Marchetti

In più, parliamo di un musicista che riesce a coniugare alla perfezione il nomadismo della ricerca e la giusta dose di stanzialità necessaria per la produzione di dischi e spettacoli: l’ultimo nato è il nuovo lavoro della Banda Ikona, Soundcity, ma negli ultimi mesi Saletti ha pubblicato anche In Search of Homerus, affascinante raccolta delle sue composizioni per il teatro – ha collaborato con nomi importanti come Massimo Popolizio, Pamela Villoresi, Giancarlo Giannini, Omero Antonutti, Predrag Matvejevic – oltre a presentare in giro per l’Italia il suo progetto Caracas, realizzato a quattro mani con Valerio Corzani (Mau Mau, Mazapegul, Gli Ex, Interiors).
Grande apertura mentale e culturale, la sua, che lo porta a vivere in sintonia con gli avvenimenti della nostra storia: eventi spesso problematici e scomodi da affrontare per alcuni artisti. Dove qualcuno si isola nella sua torre d’avorio e preferisce vivere nell’autoreferenzialità, Saletti è l’esatto contrario: artista ricco di sensibilità e senso critico, vive immerso nel contemporaneo, con grande attenzione al ruolo della propria opera nella società.

Lo incontriamo mentre sta preparando la presentazione del nuovo disco della Banda Ikona e iniziamo la nostra chiacchierata proprio da questo argomento.

Sound city - Cover art

Sound city – Cover art

Stefano, siamo davvero curiosi di sapere qualcosa del nuovo album che stai presentando assieme a Banda Ikona, “Soundcity. Suoni dalle città di frontiera”. Cosa rappresenta questo lavoro in questo momento del tuo lungo percorso musicale?

Un passaggio importante. Rappresenta esattamente quello che volevo dire musicalmente in questo momento ed è un po’ una summa di tanti anni di lavoro nel campo delle musiche popolari del Mediterraneo. E’ stato un periodo di lavoro molto intenso, però avevo da subito l’idea in testa ed è stato relativamente semplice portarla a termine. Sono figlio degli anni ’70: mi piace pensare il disco come concept, non come una raccolta di brani. Così è stato anche per il precedente “Folkpolitik” dedicato ai canti di libertà del Mediterraneo.

Cosa rappresenta per te la “frontiera”?

Un pregiudizio mentale. Non dovrebbe esistere. Nella frontiera nasce l’idea nefasta del noi contrapposto a loro, del nemico, dell’altro da sé. Mi ritrovo in quello che diceva Jean-Claude Izzo: “Ovunque io sono, mi sento a casa”. Attenzione: non sto parlando di omologazione, anzi del suo opposto, della valorizzazione delle differenze, ma nel rispetto, nel confronto, nel dialogo, nel sentirsi parte di un tutto, imprescindibilmente legato e collegato.

Come costruisci queste canzoni così ricche di suggestioni e di linguaggi esotici?

Sono partito da suoni, rumori, voci, melodie catturate nei miei viaggi musicali a Tangeri, Istanbul, Lisbona, Sarajevo, Jaffa, Ventotene e Lampedusa… Ogni registrazione è stato lo spunto per far nascere un brano che poi è cantato in Sabir, la lingua del mare che unisce spagnolo, francese, italiano e arabo. Si apre con “Lampedusa andata”, una preghiera cantata in Swahili, la lingua dell’Africa Orientale che rappresenta la speranza dei migranti che sognano un futuro migliore; a Istanbul il canto di una anziana donna per strada – era il 29 aprile 2013 – viene interrotto dalla voce di un passante americano che dice: “Ci sarà del caos il 1° di maggio”… cosa che poi è avvenuta con centinaia di feriti negli scontri di Gezi Park e la morte del quattordicenne Berkin Elvan. C’è una tammurriata notturna a Ventotene, isola di confino e di frontiera, che diventa un Padre nostro (cantato in Sabir) alla maniera dei pescatori nei porti del Mediterraneo. A Tangeri a fine agosto centinaia di auto di migranti aspettano di imbarcarsi per tornare in Spagna e il testo è ispirato a un brano tradizionale che dice: “Tu che parti, dove vai? Finirai per ritornare…”.

Conosciamo bene i musicisti che ti accompagnano fedelmente in questa avventura artistica: ci sono delle “new entries” questa volta?

Tante. Oltre ai musicisti che da dieci anni fanno parte della Banda Ikona: Barbara Eramo, Gabriele Coen, Mario Rivera, Carlo Cossu, ci sono tanti nuovi compagni d’avventura come Giovanni Lo Cascio e Arnaldo Vacca alle percussioni e molti amici ospiti come Riccardo Tesi, Lucilla Galeazzi, Nando Citarella, Gabriella Aiello, Jamal Ouassini, Yasemin Sannino, Awa Ly, Pejman Tadayon, Alessandro D’Alessandro, Giuliana De Donno, Emeka Ogubunka. Insomma, un grande ensemble mediterraneo che trasforma la Piccola Banda Ikona nella Banda Ikona.

Stefano Saletti & Banda Ikona - Foto di Fabiana Manuelli

Stefano Saletti & Banda Ikona – Foto di Fabiana Manuelli

Quello del disco è un viaggio circolare che si apre e si chiude a Lampedusa, l’isola dove approdano tanti migranti: come vedi la situazione in questo momento? Pensi che da musicisti e da operatori culturali abbiamo la possibilità di fare qualcosa di concreto?

Il bellissimo film documentario “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi racconta perfettamente la situazione di Lampedusa. C’è una solidarietà e un amore immenso da parte della gente del luogo e di pochi valorosi operatori. Io ho partecipato due anni fa al Festival Sabir che si è tenuto nell’isola per ricordare la tragedia dell’anno precedente. Non sembra essere cambiato molto nel frattempo.
Lampedusa dovrebbe essere la porta d’Europa, è diventata la sua tomba. Non siamo in grado di accogliere chi chiede un futuro migliore, sappiamo ormai dare solo risposte repressive, innalzare nuove barriere e creare nuove frontiere. Mi domando spesso: è questa l’Europa che volevamo? La musica, la cultura possono far poco in concreto, ma almeno accendono per un po’ la luce delle nostre coscienze e questo è almeno qualcosa…

Un’altra domanda “politica” (…del resto il vostro penultimo disco si chiamava proprio “Folkpolitik” – un nome che è tutto un programma!). Le primavere arabe oggi sembrano aver lasciato il posto a una torrida stagione di repressione e instabilità. Pensi che le cose cambieranno ancora?

Non lo so. La situazione è così indefinibile. Le primavere arabe hanno messo in luce una domanda di libertà che per la prima volta ha attraversato tutto il Medio Oriente. Cosa rimane di quello? Tante speranze frustrate, nuovi regimi autoritari e una recrudescenza dell’integralismo islamico. Potrebbe essere un totale fallimento, ma io penso che segnali positivi ci sono. In Tunisia è stata approvata una costituzione molto avanzata per i diritti delle donne e dei cittadini. In Iran, dove non c’è stata una vera primavera, ci sono comunque segnali incoraggianti di apertura.
E’ un processo che si è messo in moto e lentamente porterà a dei cambiamenti. Ma anche qui quante contraddizioni da parte dell’Occidente, quante ambiguità sulla Siria, sull’Egitto, sui rapporti con i sauditi, sull’Isis.

Un’altra città che ha un posto speciale nel tuo cuore è Sarajevo: nel disco infatti c’è un brano intitolato “Sarajevo mon amour”, proprio come il libro del generale Jovan Divjak, eroico difensore della città durante l’assedio negli anni ’90. Come è iniziato il tuo feeling con i Balcani?

Alla Bosnia dedicai il mio primo disco con Banda Ikona. Si chiamava Stari Most come il ponte vecchio di Mostar che univa la parte musulmana e quella cristiana. Era il simbolo del dialogo tra Oriente e Occidente, venne abbattuto nella terribile guerra degli anni ’90. Fu terribile assistere a una guerra devastante a pochi chilometri da casa nostra.
Io avevo suonato a Sarajevo con i Novalia negli anni ’80 e avevo tanti amici. Alcuni durante la guerra scapparono e li ospitammo a Rieti. C’era un legame profondo con la città, da sempre esempio di convivenza e tolleranza. Rimasi scioccato da quello che avvenne: i cecchini, l’assedio di tre anni, i morti per strada, i vicini diventati acerrimi nemici, una follia collettiva nel nome della religione e della difesa etnica: io lo raccontai con la mia musica.

Il ponte di Mostar - Bosnia-Herzegovina

Il ponte di Mostar – Bosnia-Herzegovina

Sei rientrato da poco da un viaggio nell’Isola di Capo Verde, la terra di Cesaria Evora: puoi raccontarci qualcosa di questa esperienza?

Sono andato a creare e dirigere un ensemble di musicisti capoverdiani nell’isola di Fogo, l’Orchestra Popolare 7Sois de Fogo. Esperienza bellissima e intensa fatta all’interno del Festival Sete Sois Sete Luas con cui collaboro da anni. A Capo Verde il tempo scorre più lentamente, sono lontani anni luce dalla nostra frenesia. Basta poco per essere felici: buona musica, buon cibo, valori fondanti come l’amicizia e il rispetto. Ho trovato questo e sono stato bene.
I ragazzi erano pieni di entusiasmo: abbiamo creato un repertorio che attingeva alla loro tradizione, evitando però i cliché di una musica che, proprio grazie alla grandezza di Cesaria Evora, si è diffusa in tutto il mondo. Adesso andranno avanti con le loro gambe e io tornerò a seguirli di tanto in tanto. Poi, il giorno che sono andato via, di passaggio per la Capitale Praia, in un incontro organizzato dall’ambasciatore Ue, ho suonato e cantato (cosa inusuale ma ero solo!) davanti al Presidente della Repubblica Jorge Carlos Fonseca. Una bella emozione!

Da qualche tempo anche tuo figlio Eugenio si è lanciato nel mondo della musica: ti affianca spesso nei tuoi live e si esibisce anche in solo: lo abbiamo potuto apprezzare anche nella “Bowie Night” organizzata da Slowcult nel febbraio scorso. Sappiamo bene che quella del musicista è una strada non facile. Tu gli dai molti consigli oppure preferisci che faccia le sue scelte in autonomia?

Eugenio è cresciuto a latte e musica. Ha il fuoco sacro dentro che tu conosci bene, che ci porta a voler suonare sempre e comunque. Quindi ha fatto tutto da sé… Io cerco solo di dargli consigli, ma poi so bene che dovrà fare le sue scelte da solo, con errori e delusioni annesse. Però è bravo, suona e canta molto bene e non lo dico perché sono il padre. Suona con me dal vivo nel progetto Caracas che ho con Valerio Corzani e sarà anche dal vivo il 16 aprile con la Banda Ikona al concerto all’Auditorium. Lo aspetta una vita fatta di tanta fatica, ma anche di tante soddisfazioni. E l’emozione che ti dà quel momento in cui si spengono le luci ed entri in scena ti ripaga di tutto…

Tra i molti eventi che hai organizzato l’anno scorso c’è stato un bellissimo concerto “improvvisato” nella strada antistante il Centro Baobab, realtà autorganizzata che sosteneva i migranti di passaggio per la Capitale. Poco tempo dopo questo luogo è stato chiuso dal Comune. Cosa pensi della politica culturale di questa città? Cosa dovrebbe cambiare?

Tutto. Il primo atto di Tronca è stato chiudere il Baobab. Ne andavano creati cento, di Baobab, e hanno chiuso l’unico che c’era. Esiste una politica culturale? Non più. E’ esistita all’epoca di Veltroni, che ci aveva investito molto: dopo c’è stato solo il buio, di Alemanno prima e di Marino e Tronca dopo. Speriamo cambi qualcosa, i segnali non sono incoraggianti. Sono stato poche settimane fa a Marsiglia al Babel Med: quanto investimento nella musica popolare, world, mediterranea, quanto ritorno in termini di crescita culturale ed economica. Qui sembra sempre che facciano elemosina se sostengono una rassegna o un’idea. Finché non cambia questa logica non c’è speranza.

Avete appena presentato Soundcity il 16 aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Quali saranno le prossime tappe di questo viaggio?

Andremo in giro per l’Italia e all’estero a raccontare i suoni delle città di frontiera. Come dice Jean-Claude Izzo in una frase che ho messo anche all’interno del disco: “Il Mediterraneo… sono delle strade. Strade per mare e per terra. Collegate. Strade e città. Grandi, piccole. Si tengono tutte per mano. Il Cairo e Marsiglia, Genova e Beirut, Istanbul e Tangeri, Tunisi e Napoli, Barcellona e Alessandria, Palermo e… ”. Ecco, in tante ci abbiamo suonato e in tante ci suoneremo: ci piace l’idea di attraversarle tutte con la nostra musica.

Stefano Saletti e Banda Ikona - Foto di Roberto Saletti

Stefano Saletti e Banda Ikona – Foto Roberto Saletti

Stefano Saletti official site
www.stefanosaletti.it

Intervista di Ludovica Valori

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