Dic 292013
 

A vent’anni di distanza dalla prematura dipartita del genio di Frank Zappa, resta impresa (e pretesa) improba voler ripercorrere la multiforme carriera di questo straordinario artista in una manciata di righe. Qualora si considerasse l’effettiva discografia ufficiale di Zappa, gli oltre ottanta (!) lavori pubblicati in trent’anni d’attività non lasciano scampo a pretese esegetiche, rendendo impossibile la redazione di un catalogo quantomeno definitivo, ma permettendo la focalizzazione di alcuni punti-cardine concernenti l’unicità di questo artista tout-court al quale la definizione di “chitarrista” suona (…) eufemisticamente riduttiva. Di Frank Zappa (1940-1993) infatti, colpiscono immediatamente alcune caratteristiche, divenute marchio di fabbrica col trascorrere degli anni. Se un tocco di colore è rappresentato dall’immancabile baffo con pizzo da moschettiere, degna cornice di un volto spigoloso adagiato su una zazzera scura e lunga, molto più stupore desta tecnicamente la predilezione da parte di un artista coinvolto appieno nel rock and roll per stilemi musicali apparentemente distanti dal proprio “alveo”: dall’R&B adorato fin dall’infanzia, all’infatuazione vera e propria per compositori come Igor Stravinskj o Edgar Varese, simbolo dell’attitudine zappiana a mescolare diverse tematiche musicali volte a generare veri e propri esperimenti sonori calibrati provocatoriamente in direzione della società americana perbenista dell’epoca, come dimostrato dall’esordio di Freak Out! (1966), primo parto dei Mothers of Invention e lavoro foriero di una nuova direzione intrapresa dal rock, vista l’ossatura concept imperniata su testi dissacranti ed a tratti demenziali, nonché uno dei primi doppi LP della storia. L’avventura di Zappa coi Mothers proseguirà con altri gioielli come We’re Only in it for the Money (1968) con la storica copertina che fa il verso al Sgt Pepper’s dei Beatles, virando poi decisamente verso il jazz con il doppio Uncle Meat (1969), disco nel quale convive magistralmente sia l’anima del Zappa volutamente demenziale al pari del Zappa musicista puro: ascoltare per credere la lunghissima King Kong, sorta di super-jam che mette in risalto le formidabili qualità di ogni singolo elemento del complesso, vero e proprio brano monstrum del Zappa primo periodo. Ma lo spirito libero del musicista rompe gli schemi anzitempo, e ben presto i Mothers si sciolgono e Zappa si mette in proprio. Il primo prodotto solista è l’intramontabile Hot Rats (1969), disco manifesto del Zappa pensiero, con la gemma rappresentata dall’intro di Peaches en Regalia, brano free all’interno del quale convivono stoccate di fusion frammiste a momenti folk-rock prima dell’unico pezzo cantato del disco, ovvero la celeberrima Willie the Pimp con Zappa che dà scuola di chitarra sulla voce acida dell’amico Captain Beefheart che ne interpreta il testo. E poi ancora momenti destinati a diventare vere proprie icone della psichedelia, come Little Umbrella e The Gambo Variations, cesellando un prodotto superbo che Zappa raramente eguaglierà nel prosieguo della propria carriera. L’estroso Frank sforna dischi in continuazione, seppur ad alterne fortune: 200 Motels (1971) si muove sulla falsariga di una colonna sonora ed è eseguito dalla nuova formazione dei Mothers assieme alla Royal Philarmonic Orchestra, mentre Grand Wazoo (1972) contiene un’ottima miscellanea jazz purtroppo disarticolata rispetto al progetto originario (assai più ampio e variegato) concepito dal musicista; sul finire del decennio, dopo lo spuntato tentativo pop di Sheik Yerbouti (1979) arriva il Joe’s Garage acts I, II, III, sorta di effettivo ritorno al rock puro da parte di Zappa che rispolvera la miglior tecnica chitarristica (Watermelon in Easter Hay), aprendo la strada al curioso tentativo di Shut up ‘n Play yer Guitar (1982), dichiarata auto celebrazione della sei corde, sviscerata all’interno di un triplo LP in pratica dedicato ai propri virtuosismi, realizzando un prodotto di non facilissima assimilazione ma di indubbia qualità. Negli anni ottanta Zappa vira in direzione orchestrale, come dimostrato dall’affascinante London Symphony Orchestra Vol. I e II (1983) nel quale la stessa LSO esegue i brani del compositore, o nell’ampolloso The Perfect Stranger (1984) all’interno del quale tre pezzi di Zappa vengono diretti da Pierre Boulez, forse uno dei personaggi più misantropi mai circolati nell’ambiente musicale. E pazienza se i risultati non sempre soddisfino Zappa (a dire il vero, quasi mai): la scoperta dell’elettronica stimola il maestro che, una volta iniziato a familiarizzare con il synclavier, sforna il rivoluzionario Jazz from Hell (1986), sorta di summa del nuovo corso intrapreso da Zappa che decide di affidarsi ai suoni computerizzati sostituendo con essi in nuce i musicisti, per un risultato sopra le aspettative che soddisfa per primo proprio lo stesso compositore. Da qui in poi, escono una valanga di pubblicazioni live e raccolte celebrative del genio di Laurel Canyon, complice la salute che inizia a peggiorare e la vena compositiva che sembra affievolirsi prima del felice esperimento di The Yellow Shark (1993), altro prodotto in veste orchestrale eseguito con perizia maniacale dai musicisti teutonici che accompagnano Zappa nell’ultima tournée della propria carriera. Il commiato è invece rappresentato da Civilization Phaze III, ultimo lavoro che fonde atmosfere ancora elettroniche con intrusioni pop figlie del Zappa prima maniera, regalando l’ennesima perla ad una carriera interrottasi anzitempo a causa di un trascurato tumore alla prostata: Frank Vincent Zappa se ne va all’alba dei cinquantatré anni il 4 dicembre del 1993, lasciando un’eredità impressionante ai cultori del rock (ma non solo), contribuendo a valorizzare l’elettronica nel campo di un jazz vicino alla fusion e permettendo alla world music di occupare un posto di tutto rispetto nel panorama della musica contemporanea. Come detto in apertura, è impossibile riuscire a raccontare Zappa in poche pagine, così com’è impossibile ricordare tutti gli eccellenti musicisti che a fasi alterne hanno partecipato ai progetti del maestro: iniziando dal quartetto dei seminali Mothers formato da Jimmy Carl Black, Roy Estrada, Ray Collins ed Elliot Ingber, in seguito collaboreranno con Zappa drummer del calibro di Terry Bozzio e Vinnie Colaiuta, virtuosi del sound come Ian Underwood e Scott Thunes, passando per l’eterno George Duke o l’istrionico Ike Willis, ma l’elenco sarebbe sterminato ed occorrerebbe un altro articolo. Così come non basterebbe lo spazio per descrivere le produzioni meno felici di Zappa, ovviamente numerose nell’ambito di una discografia imponente come quella del compositore, ma fisiologiche per ammissione dello stesso Zappa poiché investite di una certa valenza data la compulsiva ossessione sperimentale patita dal maestro, in grado di nobilitare con un’intuizione lavori magari meno riusciti come Ship Arriving too late to save a Drowning Witch (1982) o Francesco Zappa (1984), pur senza raggiungere le vette compositive dei momenti migliori. Detto ciò, l’aspetto che resta in primo piano di Zappa riguarda la sua impressionante capacità di scrivere musica eccezionale per qualità e personalità, oltre alla straordinaria tecnica chitarristica posseduta oggi riconosciuta e venerata come a sé stante: non è blasfemo, quindi, individuare in Zappa uno degli artisti più influenti dell’intero novecento musicale, formidabile sperimentatore dei generi più disparati tra loro ed icona del musicista “vecchio stampo” ansioso di applicare nuove tecnologie al tessuto sonoro, come dimostrato dall’utilizzo del synclavier dalla metà degli anni ottanta in poi. In una parola, senza esagerazione, un genio.

Fabrizio 82

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