Gen 202019
 

In occasione del suo ritorno live a Roma il 23 Gennaio al Teatro L’Arciliuto abbiamo il piacere di farci raccontare da Giulio Casale il suo viaggio umano e musicale. Un viaggio che come sempre rapisce e ferma il tempo.

casale2019

Ciao Giulio e benvenuto su Slowcult! E’ un grande piacere sapere che tornerai a Roma dopo la bellissima data recente allo Sparwasser. Torno a quel concerto. Durante il concerto è successo qualcosa di veramente bello, ti ho visto molto colpito dall’attenzione del pubblico.
Allora non tutto è perduto. Io anche da musicista, come da osservatore, ho sempre una speranza che certi attimi possano essere fermati e non divorati velocemente..

Beh, quello è un miracolo, e non è che non mi accada di solito ma sento comunque ogni volta il dovere di sottolinearlo, addirittura direi di “celebrarlo” in questi giorni che sanno sempre più di frenesia e di isteria, quando non di menefreghismo generalizzato… Poi passa tutto, tutto si ammassa nel caos che ciascuno di noi vive e frequenta, ma almeno lì, per un attimo, abbiamo sospeso il tempo, questo tempo, questo qui.

Nel tuo incontro/concerto ci sono passati davanti decenni della musica d’autore italiana, da Tenco ai primi Litfiba, agli Afterhours. Mi domandavo con che musica sei cresciuto? Quale è stata la scintilla che ti ha fatto immergere dentro la musica?

Sì, nei miei concerti da solo mi capita di divagare un bel po’, liberamente… Non succederà più ora che giro in trio! Comunque. Da dove cominciare? Beh, posso dirti che i miei genitori in casa e in macchina ascoltavano sempre i cantautori, e anche un po’ di classica. Mia madre adorava Jannacci, per dire, e sempre lei che sapeva il francese mi traduceva volentieri Brel, Ferrè, Edith Piaf.. Mi inchiodava quella potenza dei testi su interpretazioni folgoranti.. Ma già preadolescente ho capito che era il rock a potere sedurmi del tutto: in una grande band con un grande suono e un buon “poeta” a cantare la vita (e il sogno) trovavo infine la quadratura del cerchio ideale. E proprio per di là mi sono incamminato, ma appunto, avendo già a memoria la storia della cosiddetta “canzone d’autore”. Tutto quello che ho scritto con gli Estra discende in fondo da quel doppio piano, e infatti qualcuno per noi usò l’etichetta “rock d’autore”. Se mai tale definizione abbia un senso è questo, per me.

Un tuo ep riprende Bowie nel titolo, “5 anni” come “Five Years” del Duca Bianco. Quanto manca Bowie al giorno d’oggi?
E parlaci delle donne che vivono nelle tue storie, Bice è solo l’ultima del tuo immaginario

Bowie ha indicato la via, anzi: le vie. Nessuno di noi sarebbe lo stesso senza di lui. Ha aperto così tante strade.. Immagine a parte (immagine che però in lui è parte di un immenso) è proprio la ricerca musicale.. Manca tantissimo.. Però ha fatto in tempo, no? Fino alla fine. Ha tirato fuori uno dei suoi massimi capolavori in punto di morte, e anche questa non può che essere un’altra lezione. In questo mio disco c’è un pezzo, intitolato “Non ci sarò”, che certamente gli deve molto, e già il titolo dell’Ep era per lui, certo. Lo canto spesso, tra me e me, anche sul palco mi capita a volte di “sentirlo” improvvisamente, è presente, e io sono nessuno..
Bice invece continua la serie di ritratti femminili, hai ragione, mi ci hanno già fatto pensare: Hanabel, Giulia, la Nina di “Senza direzione” (che canto anche in questo tour di Inexorable), la Cara giovane vergine, etc etc. Chissà. L’universo femminile mi pare forse più in grado, più credibile nel restituire la percezione di un mondo attuale spesso disumano, nel senso proprio della distanza siderale da una vita degna e compiuta che ormai pare trionfare, inesorabile (sorride…)

Invece il tuo nuovo lavoro “Inexorable”? Da dove proviene, quale è stata la fiamma che ti ha portato a fare nuova musica?

Ma sai, io scrivo sempre, quasi tutti i giorni, e poi di solito non pubblico, butto via.. Poi arrivano dei momenti in cui sento che un certo discorso sta prendendo forma, che le tessere formano un mosaico e allora.. Mi muove la necessità: non c’è alcun calcolo, mai. Tanto meno economico, e quando mai. Quando ho scritto “Soltanto un video” dove alla fine canto “le cose che hai perso, l’interezza, lo sguardo, un progetto diverso… questi anni tremendi dove chi vince è un coglione” ho sentito che c’era tutto un intero dietro quella e le altre canzoni che non avevo ancora buttato, ed eccoci qua. Ogni album è un concept-album, non serve dichiararlo, no? Anzi: mescolare le carte, sparigliare.. C’è troppa gente con le idee chiarissime in giro – io preferisco ancora un po’ di mistero, sempre.

Il Teatro Canzone di Gaber è sempre più un riferimento, almeno per me, torno sovente a rivederne spezzoni e ne fui fortunato a vederne un paio di spettacoli.Tu sovente torni a calcare le assi del teatro riportando in scena “Polli D’Allevamento”
Com’è stato il tuo approccio verso la sua produzione? Cosa ti porti di lui sempre con te?

Mi porto il rigore intellettuale. Il rigore della messa in scena. L’anticonformismo. Il senso stesso della ricerca, del rifiuto di ogni luogo comune, o se vuoi dello scavo dietro i luoghi comuni. Non si capirà mai appieno il Teatro di Gaber e Luporini: troppa complessità. Molto più vincente chi si affida agli slogan, ovvio no? Poi anche lì: bisogna andarci, bisogna toccare con mano. Polli di Allevamento è spettacolo dirompente, ma solo se visto dal vivo, da pochi metri dal palcoscenico. Non c’è video che tenga, anzi, l’idea che te ne puoi fare è distorta, e senz’altro diminuita. Poi in un certo senso io son anche figlio “biologico” del Piccolo Teatro di Milano… Quell’esperienza c’era già, prima del rock and roll… Tutto si mescola, ancora.

Domanda d’obbligo! ci sono possibilità di rivederti anche con gli Estra?

Non credo. Abbiamo già fatto una reunion, ed è andata anche benone… Ma chissà.

Grazie di questo scambio Giulio e al 23 all’Arciliuto!

A te..G.

Intervista di Fabrizio Fontanelli

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