Mag 272018
 

philip-rothI coccodrilli che sono comparsi in questi ultimi giorni sono talmente tanti che tv, quotidiani e riviste somigliano ad una palude delle Everglades. D’altro canto lo capisco, come resistere alla tentazione di dire qualcosa su quello che, fino a pochi giorni fa, era quasi unanimemente riconosciuto come il più grande scrittore vivente?

Egoisticamente, molto egoisticamente, la gravità della perdita è attenuata dal ritiro di Roth dalla scrittura “attiva”, annunciato e coerentemente attuato qualche anno fa. Da lui, dal suo genio, non attendevamo più frutti, era come un albero secco che tenevamo in giardino anche se le radici non pompavano più linfa e i rami erano secchi. Una questione di affetto, forse d’amore. I frutti non crescevano più, ma quelli prodotti e ben conservati in libreria non volevano e, ne sono certo, non vorranno saperne di ammuffire. Sono ancora succosi, ottimi per il palato e per la salute mentale.

Di Roth si è tanto scritto e tanto parlato e credo ci sia veramente poco da aggiungere a quanto già espresso, questo non è un articolo o un coccodrillo, è una sorta di lettera d’addio ad una persona che ha arricchito la mia vita e l’ha resa migliore, non ha l’assurda pretesa di riassumere, compendiare e rianalizzare in un paio di cartelle l’enorme opera e l’infinita riconoscenza che le anima.

Roth ha narrato storie dalla trama spesso esile, che somigliava e somiglia alle nostre comunissime vite, e l’ha fatto rendendo alla perfezione l’articolazione di ogni essere umano con capacità di pensiero. Roth ha narrato la complessità umana e sarebbe sufficiente questo per farne un immortale e doveroso rendergli un ringraziamento.

La sua morte ha gusto amaro e straziante, reso ancora più doloroso dal momento in cui avviene, come se in questi anni e per quelli a venire la sua mancanza sia ancora più tragica, pesante, inaccettabile. Negli anni del dilagare di Facebook, di Twitter, dell’inarrestabile e ripugnante superficialità che ha investito gli esseri umani come l’onda anomala di uno tsunami, nel tempo di chi minaccia guerre nucleari in 140 caratteri o riduce a slogan temi come l’immigrazione e la giustizia sociale, la profondità di Roth ci mancherà più dell’aria che respiriamo.

Potremo “soltanto” rileggere le sue opere, non più averne di “nuove”, saremo costretti a farcele bastare. Dovremmo impararle a memoria e saperle recitare come i ribelli di “Fahrenheit 451”, questo dovrebbe essere il compito di chi rimane. I pochi sfortunati che non conoscono Roth leggendo queste parole potrebbero immaginare che la lettura di un suo romanzo possa essere noiosa, pesante, impegnativa: niente di più falso. La scrittura di Roth era, rimane e rimarrà uno dei più chiari, nitidi e folgoranti esempi di come l’affrontare i grandissimi temi possa essere realizzato attraverso una scrittura articolata, ricca, elegante e al contempo di facile approccio. Il periodare ha l’eleganza formale di Proust affratellata alla schiettezza naturalistica di Steinbeck. Nella sua prosa sono rare metafore e similitudini perché non ce n’è alcun bisogno, la narrazione è così chirurgica e perfetta che usare quelle figure retoriche può soltanto sminuirla, diluirla, non arricchirla. Portnoy_s_ComplaintI suoi personaggi, anche quelli più ossessionati e apparentemente piatti, sono multidimensionali, ricchissimi, non di rado imprevedibili. In altre più semplici e lapidarie parole Roth era ed è la migliore narrativa degli ultimi cent’anni. Non l’hai inventata lui, ovviamente, come Hendrix non ha inventato il blues e le sue discendenze, ma nessuno come loro li ha spinti verso i confini del possibile scavandoci dentro e portando alla luce diamanti purissimi.

Nella mia testa,“Lamento di Portnoy” e “Woodoo Child” sono fratelli di sangue e “Il teatro di Sabbath” ha bevuto lo stesso latte di cui si è nutrita l’interpretazione di “All along the Watchtower”. E’ compito dei geni prendere l’umanità nel punto in cui l’hanno trovata, afferrarle la mano e condurla più avanti. Accade molto raramente, ma accade. Probabilmente Roth non aveva quest’intenzione, quasi di sicuro aveva ben altro che gli frullava nella testa, ma quando ha licenziato i suoi indiscussi capolavori lo ha senza dubbio fatto, dovremmo tutti essergliene grati.

Daniele Borghi

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