Ago 312015
 

Daniel Kehlmann. I fratelli Friedland Feltrinelli, 2015. 270 pag. 17 euro

Traduzione Carlo Groff

★★☆☆☆

Daniel Kehlmann. I fratelli FriedlandOgni scrittore degno di questo nome ha un suo personale approccio alle storie che narra, questo è un fatto evidente ad ogni persona che abbia un minimo di buon senso. Com’è altrettanto ovvio, questo approccio, riflettendosi nell’intimo del lettore, innesca un’alchimia che origina risultati sempre imprevedibili.

La “voce” di Kehlmann, per come riesce a risuonare in me, non è gradevole. Come ho spesso ribadito, questa non è una rubrica di recensioni accademiche o pensose. Queste cinque o sei cartelle a cadenza mensile desiderano essere soltanto una condivisione delle impressioni di lettura e quindi non hanno pretese di obiettività ma, al contrario, sono una piccola rivendicazione di soggettività.

Ed è proprio questa soggettività che mi porta a scrivere di un romanzo che ho percepito superficiale, irrisolto, sostanzialmente inutile. Tutto questo, sia ben chiaro, senza nulla togliere alle capacità tecniche, di scrittura pura, che sono notevoli e del tutto evidenti.

Sua Maestà Jonathan Frenzen (se la citazione è veritiera) sulla quarta di copertina, scrive: “Con I fratelli Friedland Daniele Kehlmann è diventato un punto di riferimento in Europa per fare i conti con la stranezza del mondo postmoderno in cui viviamo”. Affermazione assai impegnativa, mi vien da dire…

Kehlmann, in effetti, affronta situazioni e personaggi sfasati, disorientati, sull’orlo del precipizio esistenziale ed economico, ma non credo possa essere un punto di riferimento per nessuno. Trasportare sulla pagina dialoghi e situazioni al limite della schizofrenia, dello spaesamento totale, ma facendolo come in una sorta di trascrizione di una registrazione o con la freddezza di una macchina da presa, non è letteratura. Forse sono troppo affezionato all’impianto del romanzo classico, non so, ma il dipanarsi di questo romanzo l’ho percepito eccessivamente distante dai suoi personaggi, con una ostentata presa di distanza dal loro mondo interiore. Basta pensarci un attimo per capirlo: lo scavo interiore, l’approfondimento psicologico o come diavolo si voglia chiamare l’atto (forse la presunzione) di guardare dentro ad un personaggio, è l’unico strumento di cui, a differenza di tutte le altre, è in possesso la letteratura. Rinunciare ad una peculiarità così importante mi sembra una atto di abdicazione così decisivo da dover essere rimarcato.

Strutturalmente questo romanzo non dice nulla di nuovo, anzi ripercorre quella che fino a qualche anno fa poteva essere colta come novità ma che ora rischia di diventare una stanca routine.

Le vicende dei tre fratelli Friedland (Terrafritta!?!) si intersecano e sovrappongono spesso ri-narrando lo stesso incontro o la stessa scena da punti di vista diversi, rischiando di togliere ulteriore interesse al lettore. Quest’ultimo è sì messo al corrente della percezione diversa della stessa situazione, ma essendo la percezione narrata in modo tutt’altro che profondo, la ri-narrazione aggiunge poco o nulla a quanto già letto.

Di certo Kehlmann non manca di capacità di scrittura e non gli è estraneo anche un senso dell’umorismo che a volte compare in maniera strisciante, quasi a volersi nascondere, ma credo che indirizzare questa sua capacità in direzioni meno orizzontali e più marcatamente verticali, gioverebbe molto ai suoi romanzi.

Alice Basso. L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome. Garzanti, 2015. 271 pag. 14,90 euro.

★★★★☆

Alice Basso. L'imprevedibile piano della scrittrice senza nomeOsanna! Osanna nell’alto dei cieli!

Finalmente un romanzo italiano di intrattenimento non pretenzioso, non autoreferenziale, non ruffiano, non banalmente sentimentale, coerente e controllato dalla prima all’ultima riga, senza una sbavatura e senza la minima caduta di tensione narrativa.

E’ molto probabile che a questo risultato abbia concorso la professione dell’autrice, da sempre impegnata in ambito editoriale, ma quanti sono quelli “del mestiere” che davanti alla prova letteraria hanno miseramente fallito? L’elenco sarebbe lunghissimo. E comunque tutte le premesse hanno valore prossimo allo zero: la sola cosa importante è il risultato, e in questo caso ci troviamo di fronte ad una prova di scrittura pienamente e felicemente riuscita.

Ciò che fa di questo romanzo una piacevolissima eccezione nel panorama italiano, è il suo sguardo perfettamente a fuoco sull’oggetto della narrazione, l’assoluta assenza di quel sentimentalismo d’accatto che sembra non voler sparire dalle pagine degli autori nostrani (soprattutto autrici, mi duole dirlo ma è così), la costruzione di personaggi credibili ma non oleografici e la sagacia della scrittura apparentemente semplice. Se proprio dovessi citare un’autrice che la Basso mi ha ricordato, citerei la Tama Janovitz di “Pamela e i suoi vestiti”, e sto parlando di un grande romanzo, a dispetto dell’orrida traduzione del titolo originale.

La protagonista e voce narrante è una ghost writer tagliente come una katana e tosta come l’acciaio della medesima, sempre con il cervello a tavoletta ma senza andar mai troppo sopra le righe, una donna/ragazza che rifugge la luce dei riflettori preferendo lavorare nell’ombra ed è una sorta di Zelig della letteratura. Tutto questo rende piacevolissima la lettura, ma ciò che più si apprezza è l’approccio alla scrittura che è solida come quella di un buon thriller eppure spesso screziata da sapido humour e ragionamenti/deduzioni/ricostruzioni degni di un redivivo Sherlock Holmes.

Molti anni fa, leggendo i titoli di testa di “Schindler’s list”, rimasi molto colpito dal nome della casa cinematografica che lo aveva prodotto. Il nome era (ed è ancora): “Amblin Entertainment”. Da quel momento mi sono spesso interrogato sul significato della parola intrattenimento e a capire che quello che mi era sempre sembrato un insulto edulcorato poteva avere anche delle accezioni non negative. Certo, questo è un argomento che meriterebbe un approfondimento ben diverso da quello che posso portare a termine io con qualche riga infilata quasi di straforo nella recensione di un romanzo, ma la la direzione di quel che sto scrivendo conduce comunque verso una domanda: ha più senso dichiarare apertamente il proprio desiderio di intrattenere in modo stimolante ed intelligente oppure dichiararsi “impegnati” o addirittura “organici” e produrre devastanti rotture di coglioni che spesso ottengono effetti opposti a quelli desiderati?

Come si era soliti dire… il dibattito è aperto.

Alice Basso ha senza dubbio scelto la prima opzione ed è perfettamente riuscita nel suo intento, di questo occorre rendergliene atto e essergliene grati.

Richard Ford. Tutto potrebbe andare molto peggio. Feltrinelli, 2015. 215 pag. 17 euro.

Traduzione: Vincenzo Mantovani

★★★½☆

Tutto potrebbe andare molto peggioFord ha articolato questo romanzo in modo molto personale, sia a livello strutturale che di scrittura. L’intero testo si dipana attraverso alcuni incontri e, sia nei pensieri che li precedono che nei dialoghi che li animano, l’autore riesce pienamente a trasferirci la disincantata visione del mondo e l’humus sociale e culturale in cui ha vissuto e vive il protagonista.

Non esiste una vera e propria trama, il plot è nei pensieri e nelle azioni che popolano le giornate post uragano del personaggio-baricentro del romanzo, un agente immobiliare in pensione che, al contrario di quanto potrebbe essere facile immaginare non è né venale, né arido ed è anche in possesso di una buonissima cultura letteraria. Raccontandolo in questo modo potrebbe apparire un testo noioso, lento e farraginoso, ma in realtà non è affatto così perché Ford riesce a supplire alla mancanza di azione con una notevole profondità di pensiero e, soprattutto, ad esprimere tutto ciò che desidera portare alla luce con una resa letteraria ben al di sopra di quanto siamo abituati a leggere e con una notevole originalità nello sguardo della voce narrante. Nella narrativa moderna (e non solo), l’aspetto che può fare la differenza tra un testo “normale” ed uno “oltre la media”, è proprio l’angolazione dalla quale l’io narrante osserva e descrive.

Chuck Palahniuk, prima che si rincoglionisse, in uno dei suoi migliori romanzi, usò una sorta di tormentone con cui sottolineava quest’aspetto. Spesso iniziava le frasi con un aggettivo o un avverbio e continuava scrivendo: “… non è la parola giusta ma è la prima che viene in mente”, e poi passava a definire il suo mondo attraverso le proprie parole e la propria sensibilità attraverso di esse. Questo dovrebbe essere il dovere morale di ogni autore, e Ford lo assolve pienamente.

Il risultato è un romanzo appena dolente, in cui molto è percepito attraverso una leggera nebbia di malinconia, ma senza che quest’ultima o le sue conseguenti lamentazioni tracimino dalle pagine, un testo che fa i conti con i dolori di una vita ma senza sostanziarli in dramma. Un dolore insistente ma non forte nelle ossa che, a sessantotto anni, oltre a far soffrire un po’ rassicura sulla propria esistenza in vita e sul non aver vissuto invano.

Edna O’ Brien. Ragazze nella felicità coniugale. Elliot, 2015 (1986), 244 pag. 17,50 euro.

Traduzione: Cosetta Cavallante

★★½☆☆

Edna O' Brien. Ragazze nella felicità coniugale.A fine lettura, riponendo il volume nella libreria, i commenti entusiasti ben in evidenza sulla prima e quarta di copertina mi sono apparsi troppo generosi. Paragonare quest’autrice ad Alice Munro e Philip Roth, o (addirittura!) a rivendicare per lei un Nobel, mi è sembrato decisamente eccessivo.

E’ certamente vero che questo testo ha buone qualità ed è alimentato da alcune idee non banali, ma da questo ad arrivare all’immenso Roth occorre salire non pochi gradini.

Il romanzo ha una struttura semplice e collaudata: segue due amiche d’infanzia, due irlandesi trapiantate a Londra, dalla giovinezza alla maturità di una e alla morte dell’altra. La sua maggior particolarità è data dal doppio punto di vista con cui l’autrice narra le loro vicende. Quando ad essere al centro dell’azione è quella che potremmo definire più fortunata (un ricco matrimonio la fa vivere nel lusso), l’io narrante è la donna stessa e la sua esposizione è frizzante, quasi fosse un personaggio dei “Committments” di Roddy Doyle. L’approccio è quello sfrontato, tipico della ragazza irlandese che si accende come un cerino e non china il capo di fronte a niente e nessuno, un atteggiamento che la porta a diluire situazioni difficili e dolorose con secchiate di battute sarcastiche e risposte al vetriolo. Al contrario, quando è la sua amica ad essere seguita, una donna che a causa di una insignificante relazione extraconiugale perde marito, figlio e casa, la narrazione è affidata ad una terza persona onnisciente di stampo ottocentesco dall’impianto ipercollaudato e ultraortodosso. Non so quali fossero gli intenti che hanno spinto Edna O’Brien a questa alternanza, di certo questa scelta si concretizza in un piacevole contrappunto, e questo è senz’altro un buon risultato. Oltre a questa “doppia voce” il romanzo ha un’altra particolarità: una irregolare progressione cronologica negli eventi narrati. Quasi a voler riprodurre la vita vera, in cui momenti convulsi si alternano a lunghi periodi di calma, l’autrice alterna capitoli in cui ore o giorni sono seguiti con puntualità ad altri in cui si riassumono in poche righe o addirittura salta a piè pari interi anni.

Questo lascia alcuni vuoti da cui non sempre è possibile riallacciare con prontezza le fila delle vicende e accade in particolar modo nel sottofinale e nel finale in cui l’intreccio sembra sfilacciarsi per poi tentare di ricomporsi ma senza riuscirci completamente.

Una citazione a parte merita il titolo: rovesciando completamente il contenuto del testo ne fa una piccola perla di nero e sottile umorismo. Per fortuna l’editore italiano, come spesso non accade, ha evitato di stravolgerlo e lo ha tradotto letteralmente.

Rubrica a cura di Daniele Borghi

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