Lug 022017
 

Incontriamo per i lettori di Slowcult un artista da loro ben conosciuto per aver partecipato a alcune edizioni della Slowfesta e anche al concerto a sostegno delle popolazioni terremotate del centro Italia lo scorso settembre. Gabriele Coen, sassofonista, clarinettista e compositore, nei primi anni ’90 è stato tra i fondatori dell’ensemble Klezroym dando così il via a un vero e proprio Klezmer revival italiano ed europeo. Ma oltre a questo raffinato progetto che ha riportato alla luce canzoni e sonorità da noi quasi dimenticate c’è un’intensa attività concertistica, che ha portato Coen a viaggiare in lungo e in largo per il mondo fino all’incontro con John Zorn, nell’estate del 2010: con la sua etichetta Tzadik esce quindi il disco Awakening, nella collana “Radical Jewish Culture” dedicata dall’artista americano alle migliori espressioni della nuova musica ebraica a livello internazionale. E sono innumerevoli le collaborazioni di Coen con numerosi musicisti della scena italiana ed europea tra il jazz e la musica contemporanea, sempre all’insegna della qualità e con una  generosa passione per la performance dal vivo. Il nuovo lavoro di Gabriele con il suo sestetto, Sephirot: Kabbalah in Music, presentato lo scorso 7 maggio all’Auditorium Parco della Musica di Roma, è il punto di partenza della nostra intervista.

Gabriele Coen, foto di Sveva Bellucci

Gabriele Coen, foto di Sveva Bellucci

Ciao Gabriele e anzitutto grazie mille per questa chiacchierata: i lettori di Slowcult attendevano da tempo l’uscita del tuo nuovo lavoro! Dopo l’esperienza con la Tzadik, questa volta torni a una produzione italiana, grazie anche a una campagna di crowdfunding che è andata molto bene. Cosa pensi di questo metodo di finanziamento?

Ma grazie a voi per pormi sempre delle domande molto stimolanti! Oggi il mercato discografico è praticamente distrutto: rientrare delle spese ormai è veramente difficile sia per le case discografiche che per i singoli artisti. Il crowdfunding è stato un’avventura faticosa ma molto interessante e fruttuosa. In qualche modo, oltre a chiedere un sostegno economico, hai la possibilità di far conoscere il tuo progetto e inoltre ti senti responsabile nei confronti dei tuoi sostenitori. Probabilmente in futuro se lo dovessi rifare non mi appoggerei però a delle piattaforme esistenti ma cercherei di fare da solo, creando un conto corrente specifico. A buon intenditor poche parole!… (Ride)

Come mai hai deciso di ispirarti alle Sephirot? Forse l’idea di coniugare spiritualismo ed elettricità è anche la ricerca di una sintesi tra un’eredità culturale millenaria e una modernità che spesso rischia di appiattire tutto sul puro aspetto tecnologico?

Il progetto è ispirato alla simbologia dell’albero della vita secondo la cabbala e la mistica ebraica, un viaggio affascinante dentro la struttura del mondo divino a un livello di macrocosmo, ma un viaggio anche dentro gli stati d’animo dell’essere umano parlando invece di microcosmo. Le sephirot sono appunto questi dieci principi basilari che ritroviamo a tutti i livelli sia nel mondo divino che nella psicologia umana… sono strutturate come un grande albero della vita e sono collegate in modo magico tra loro attraverso ventidue canali, 22 proprio come le lettere dell’alfabeto ebraico. I loro nomi sono:

Sephirot

Kèter (corona), il principio di tutte le cose;
Binàh (intelligenza), il polo femminile dell’universo;
Chokmà (saggezza),
Chèsed (amore),
Ghevuràh (la forza, l’elemento del fuoco);
Tifèret (la bellezza, nel corpo umano sarebbe il centro del cuore),
Hod (splendore),
Nètzach (eternità),
Yesòd (fondamento, il luogo di tutte le emozioni);
Malkùth (il regno, la sephirot più in basso di tutte, la più vicina al mondo fisico: nel corpo umano rappresenta i piedi).

Tutto questo mondo un po’ magico e metafisico ci ha ispirato dieci brani originali dalle forti sonorità elettriche in cui è centrale il suono del Fender Rhodes, il mitico piano elettrico che ha caratterizzato a partire dagli anni Sessanta molta storia del rock ma anche del jazz. Anche il basso elettrico e la chitarra elettrica fanno la loro parte, il tutto condito da una grande base ritmica formata dagli incastri della batteria e delle percussioni.
L’ispirazione insomma è quella del jazz elettrico alla Miles Davis di Bitches Brew e In a silent way, per intenderci, fino alle sonorità attuali dell’Electric Masada e di The Dreamers di John Zorn, formazioni chiave dell’incontro tra musica ebraica e jazz elettrico.

Puoi parlarci dei musicisti che ti hanno accompagnato in questo nuovo lavoro?

Mi hanno affiancato in questa impresa i miei compagni di viaggio di sempre: le stesse persone con cui ho registrato già cinque dischi estremamente importanti nella mia vita artistica e in particolare i musicisti con cui ho coronato il sogno di vedere pubblicati i nostri lavori in America per la Tzadik.
I musicisti sono il pianista Pietro Lussu con cui suono da quando avevo sedici anni. Alla chitarra come sempre Lutte Berg, eccezionale chitarrista con una doppia identità calabrese e svedese che da sempre lo caratterizza anche musicalmente. Al basso elettrico Marco Loddo, altra colonna portante dei miei progetti solistici ormai da circa quindi anni: La drum machine del gruppo è invece come sempre Luca Caponi, batterista muscolare oltre che raffinato…
A concludere la squadra questa volta ho voluto accanto a me anche uno dei più grandi percussionisti in circolazione: Arnaldo Vacca, un multistrumentista eccezionale dai mille colori diversi, e che è stato al fianco di grandissimi musicisti negli ambiti musicali più disparati.
Concludono la squadra due ospiti: il valente chitarrista Francesco Poeti con cui suono piacevolmente ormai da alcuni anni e Mario Rivera, il bassista degli Agricantus per intenderci, ma anche produttore e fonico di moltissimi miei progetti.
Dopo oltre venti anni di frequentazione con la musica e la cultura ebraica mi sono sentito pronto ad affrontare un tema affascinante, misterioso e complesso come ll misticismo ebraico e mi è sembrato stimolante parlare di un mito molto antico attraverso invece i suoni contemporanei del jazz-rock elettrico.

Sei autore di un testo molto interessante sulla musica klezmer e tra i tuoi progetti c’è anche un laboratorio di musica klezmer e yiddish che si svolge tutti gli anni presso la scuola di Testaccio: stai preparando qualche altro libro sul tema?

Il libro è stato un momento molto importante del mio lavoro, quasi un diario di bordo delle mie navigazioni musicali. La scrittura di argomento musicale mi ha sempre attratto: già nei primi anni Novanta collaboravo con riviste come Time Out Roma e I Fiati in qualità di giornalista musicale. Inoltre, essendomi laureato in Scienze Politiche presso la cattedra di Storia Moderna, ho sempre avuto una grande passione per la storia e una certa familiarità con la scrittura. Nel ’98 iniziammo con Isotta Toso, che poi sarebbe diventata mia moglie, a concepire l’idea di questo libro, in cui io mi sarei occupato della parte più prettamente musicale e lei di quella storica e culturale. Uscito per la Castelvecchi Editore nel 2000, il libro ha riscosso da subito grande entusiasmo, essendo tra l’altro l’unico testo in italiano in materia. Purtroppo la Castelvecchi fallì pochi mesi dopo e il libro divenne di difficile reperibilità. Abbiamo dovuto aspettare il 2009 per riproporre il libro completamente rieditato e abbinato ad un cd per Stampa Alternativa. Il libro mantiene un taglio divulgativo e giornalistico per certi versi, che vuole essere uno strumento utile anche a chi si avvicina per la prima volta a questo universo. Nella nuova edizione naturalmente mi sono molto soffermato sul rapporto tra jazz e musica yiddish, che poi è diventato il cuore del mio ultimo recente lavoro per la Tzadik Yiddish Melodies in Jazz (2013). Vorrei proseguire prima o poi questa mia attività divulgativa pubblicando una nuova edizione in cui inserire anche un nuovo capitolo in cui parlerei volentieri delle musiche ebraiche altre, dalla tradizione sefardita (ebraico-spagnola) e mediterranea a quella yemenita. Per quanto riguarda il workshop a Testaccio ormai è una felice tradizione e quest’anno a novembre ci apprestiamo a dare vita alla quinta edizione.

Entriamo nel vivo del disco: tra i brani che ho ascoltato mi ha colpito molto Netzach. Cercando di sintetizzare al massimo il concetto, si tratta della settima tra le sephirot, che sta a rappresentare la resistenza, la forza, la pazienza nel perseguire le proprie passioni. Credo che oggi questa sia una delle qualità fondamentali per chi voglia seguire una carriera artistica, cosa ne pensi? Qual è la situazione per gli artisti nel nostro paese?

In effetti ho trovato interessante che a ogni sephira si possa collegare un concetto o un sentimento che è alla base anche dell’esperienza umana oltre che a quella della cosmogonia divina: la materia e lo spirito si incontrano a tal punto che a ogni sephira corrisponde anche una parte del corpo umano, in questo caso la gamba destra. La capacità di resistere appunto è la qualità che si richiede oggi a chiunque voglia intraprendere una carriera artistica non solo nel nostro paese… certo in Italia la situazione è drammatica ormai: l’unica cosa che mi sento di suggerire è di trovare una propria personalità, diventare cioè unici e insostituibili.

Molto interessante anche il brano “Tiferet”, composto da Lutte Berg, tuo fedele compagno di strada in tanti progetti. Nella composizione dei tuoi brani quanto spazio dai all’improvvisazione e quanto alla struttura?

Lutte Berg rimane probabilmente il musicista con cui ho trovato la maggior sintonia musicale in assoluto: il fatto che dal 2013 si sia trasferito in Svezia ha complicato un po’ le cose ma cerco sempre di trovare occasioni per suonare insieme. Nei miei brani c’è naturalmente grande spazio per l’interplay sia a livello esecutivo che compositivo: molto spesso arrivi in sala con una tua idea del brano e ne esci fuori con una collettiva che non avresti mai immaginato.

Gabriele Coen e Lutte Berg, foto di Luca Fiaccavento

Gabriele Coen e Lutte Berg, foto di Luca Fiaccavento

Oltre al Miles Davis “elettrico” e naturalmente a John Zorn, quali sono gli artisti che più ti hanno ispirato nel tuo percorso?

Mi dai un’ottimo spunto per parlare dello strumento che ho scelto come vera e propria vocazione e cioè il sax soprano. Mi piace perché, come sono solito dire, è il “meno sassofono dei sassofoni”. Questo per tante ragioni, la prima delle quali è forse il fatto di essere arrivato nel jazz piuttosto tardi: a parte la parentesi di Bechet e il prologo di Lacy, arriva solo nel 1961 con Coltrane. Per questo ha un’identità ancor oggi non del tutto definita e completa. Se senti l’alto o il tenore, ti senti subito scagliato in una tradizione; se senti il soprano, la sensazione è quasi sempre molto diversa. È uno strumento legato essenzialmente al jazz moderno, ed è questa la ragione per cui mi è stato del tutto naturale adottarlo come strumento principale. È lui stesso, come strumento, un ibrido tra più linguaggi. Poi, se vai a vedere i grandi sopranisti, trovi personalità a loro volta votate alla contaminazione. Tra i miei preferiti c’è Paul McCandless, che nel suo suono purissimo esprime tutta una tradizione classica, derivata dal suo essere nato come oboista classico. Poi è un musicista che riesce a usare otto strumenti nello stesso set, tutti perfettamente, una cosa difficilissima dal punto di vista tecnico, ma soprattutto che segna una volta di più la contaminazione di suoni e linguaggi. Ma anche Surman e Garbarek, altri miei punti di riferimento al soprano, hanno nel loro linguaggio e nel repertorio delle loro lunghe carriere un continuo processo di ricerca in direzioni diverse, spesso rivolte verso la musica popolare e quella classica. Lo stesso Dave Liebman – altro musicista che ammiro, dal quale ho tratto ispirazione e con il quale ho fatto anche alcuni seminari – pur essendo il più vicino a una tradizione jazzistica pura non ha mancato di esplorare ambiti anche molto diversi, nella sua riproposizione in chiave moderna del coltranismo. Diverso il caso di Lacy, che apprezzo per l’indubbia e straordinaria capacità tecnica, ma che sento meno vicino a quel che suono e voglio suonare. Anche il suo disco per la Tzadik, Sands, che avrebbe dovuto essere dedicato alla musica ebraica, in realtà con quella cultura non ha quasi nulla a che fare.

Sei solito passare spesso del tempo a New York: una città fantastica e piena di stimoli per gli artisti. Hai mai pensato di trasferirti lì o ti senti in qualche modo legato a Roma?

Ho avuto il piacere di passare dei periodi a New York ben quattro volte negli ultimi anni ed è una città incredibile, capace di trasmetterti un’energia creativa incontenibile. Tra i progetti futuri sto pensando a un disco di dieci mie nuove composizioni ispirate a NYC e a dieci posti che considero significativi della città e del suo incredibile Melting Pot. Per trasferirti a New York però devi aver vinto alla lotteria se vuoi condurre una vita dignitosa! È veramente troppo costosa.

Gabriele Coen

Hai collaborato con tantissimi musicisti della scena internazionale, tra i quali il duo di Blixa Bargeld e Teho Teardo: cosa hai riportato a casa da questa esperienza?

L’amicizia e la stima che mi lega in particolare a Teho Teardo sta crescendo moltissimo in questi ultimi anni e credo che proseguirà ancora a lungo. La lunga tournèe internazionale che ho intrapreso con loro mi ha dato grandi emozioni, Blixa poi è veramente un personaggio incredibile, un mito vivente della scena underground degli ultimi quarant’anni. In particolare con loro ho la possibilità di esplorare regioni musicali per me inedite con il suono del mio clarinetto basso, strumento a cui sono sempre più legato negli ultimi tempi.

L’estate scorsa avete riunito la “storica” formazione dei Klezroym regalando ai vostri fans un bellissimo concerto all’Auditorium di Roma: ci sono all’orizzonte altre vostre esibizioni?

I Klezroym sono stati il primo gruppo con cui mi sono fatto conoscere e con cui ho raggiunto traguardi importanti (cinque dischi, centinaia di concerti effettuati). Con loro la formula vincente è sempre stata una front line di tre fiati (Andrea Pandolfo alla tromba e Pasquale Laino al sax alto e baritono) con cui intrecciamo contrappunti a volte balcanici, a volte jazzistici. Il repertorio è molto accattivante e più facile all’ascolto grazie alla voce di Eva Coen, mia sorella, e Riccardo Manzi che suona anche la chitarra e il bouzouki. La ritmica di Andrea Avena e Leonardo Cesari fa il resto. L’anno scorso abbiamo festeggiato i venti anni di attività con alcune iniziative e ogni tanto riuniamo la band molto volentieri: il 6 agosto suoneremo per il Faito Doc Festival a Monte Faito (Vico Equense) e probabilmente a Roma nella rassegna Flautissimo a dicembre.

Sito ufficiale di Gabriele Coen

Intervista di Ludovica Valori

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