Gen 162012
 

(Subsound, 2011)

★★★½☆

Mombu nasce dall’incontro fra la batteria di Antonio Zitarelli dei Neo, importanti rappresentanti di quella che potrebbe essere definita la scena jazzcore romana, e il sax baritono di Luca Tommaso Mai degli Zu, una delle band italiane più coraggiose, originali e artisticamente integre, che di quella scena sono stati i più famosi portavoce, prima di ridefinire in parte le loro coordinate sonore con l’ultimo album “Carboniferous”, pubblicato dalla Ipecac di Mike Patton. Da febbraio del 2011 gli Zu si sono separati dal batterista Jacopo Battaglia (ora nei Bloody Beetroots, e che a quanto pare verrà rimpiazzato da Gabe Serbian della eccezionale band americana The Locust), ma Luca e il bassista Massimo Pupillo, in attesa di far ripartire la band, non sono stati con le mani in mano, come loro solito, e sia insieme che separatamente hanno preso parte a innumerevoli progetti e collaborazioni, fra cui Mombu, grazie a questo omonimo disco d’esordio, spicca per forza ed importanza.

Costruita su una formazione più che atipica e originale, solamente batteria e sax, la musica dei Mombu, da loro stessi definita “afrogrind”, vuole fondere richiami ad atmosfere tribali dell’Africa più nera e sfuriate grind, ritmiche complesse e ipnotiche con continui cambi di tempo e un sound potente ed elefantiaco. Per tutta la durata dell’album si alternano momenti veloci e rabbiosi di derivazione grind, su cui il sax di Luca riversa strepitando caotici diluvi di note, e momenti più lenti e pesanti, quasi doom, con poche note basse ed enormi del sax. Con passaggi spesso molto efficaci e sorprendenti, ma talvolta poco fluidi, tengono insieme questi due estremi le sezioni più intricate, che sono l’aspetto più originale della musica dei Mombu, dominate dalla sovrapposizione di ritmi suonati da percussioni e batteria e dove il sax è impegnato in temi più melodici e in interessanti armonizzazioni. Tutto questo senza però disdegnare una certa semplicità di fondo, che in un disco di questo genere fa sicuramente bene, e che rende i brani memorizzabili dopo pochi ascolti, grazie ai temi suonati dal sax e a certi pattern ritmici che restano facilmente in testa.

L’inizio del disco è un’immediata immersione nell’atmosfera scura e sinistra della notte africana, con il crepitio del fuoco e la voce di una misteriosa strega, subito spazzata via dalla furia grind di “Stutterer Ancestor”, che alterna le urla del sax di Luca e la furia schizofrenica della batteria di Antonio con una marcia pachidermica suonata sulle note basse. Con “Orichas”, e con la lunga “Radà” cominciano le vere e proprie danze voodoo, con notevoli interventi delle percussioni a creare complessi incroci ritmici con la batteria. “Regla de Ocha” prosegue su questa strada, lasciando ancora più spazio alle diverse percussioni che vanno a stratificarsi in una trance da rituale stregonesco, mentre il sax contribuisce solo in alcuni punti del brano, e stando più in sottofondo, a stordire l’ascoltatore sovrapponendo note su note.
“Mombu Storm” mantiene fede alle promesse del titolo ed è un vero e proprio assalto sonoro, frenetico e umorale, che alterna stacchi veloci a pesantissime marce scandite dai barriti del sax e si conclude in un fragoroso delirio rumoristico, mentre in “Kemi” la batteria prende il sopravvento sfogandosi persino in qualche assolo fra gli stop-and-go del sax, sempre potente e concentrato su note bassissime. Nella conclusiva “Ten Harpoon’s Ritual” si affacciano due ospiti, il percussionista cubano Jorge “El Toro” Castillo nell’introduzione del brano, e Stefano Ferrian, chitarrista dei novaresi Psychofagist di cui proprio Luca Mai fa parte dal 2007: il risultato è un pezzo ancora più potente ed ossessivo, con la chitarra che contribuisce a ingrossare e ad arricchire ulteriormente l’impatto del gruppo suonando all’unisono con il sax.

Il disco dei Mombu non è un ascolto buono per tutti i palati né per scaldare il cuore: pretende apertura mentale e la giusta attenzione verso tutti i dettagli di una musica ambiziosa e cerebrale, che per questo può risultare un po’ fredda e distaccata, ma non mancherà di soddisfare, e molto, chi apprezza influenze insolite, suoni disturbati e ritmiche cervellotiche, insieme a una costante ricerca di formule fuori dagli schemi e a una gran voglia di suonare ad alto volume.

Recensione di Andrea Carletti

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