Feb 032009
 

Roma, Init, 30 gennaio 2009

Adem ★★★★☆
Giant Sand ★★★☆☆

Adem-Giant Sand 016 [].jpgSerata ricca di musica e di sorprese, alcune molto piacevoli, altre meno, in uno stracolmo Init, sempre più polo d’attrazione e caposaldo imprescindibile delle proposte indie nel panorama capitolino.
Data la ricchezza del programma, si inizia prima del solito con il progetto parallelo creato da ¾ dei Giant Sand (tutti tranne Howe Gelb), in cui il chitarrista Anders Petersen presenta un breve repertorio di ballads lente e suggestive, ma profondamente debitrici della tradizione west-coast, in maniera particolare del Neil Young più crepuscolare, quello di Tonight’s the Night e Zuma.
Un ottimo aperitivo, comunque, impreziosito dall’arrivo sul palco della bionda Lonna Kelley, che più tardi raggiungerà i Giant Sand, il cui repertorio, cantato con un efficace filo di voce e degno della colonna sonora di un prossimo film di David Lynch, ha ulteriormente ammorbidito l’atmosfera, creando l’humus più adatto per l’artista successivo.
E qui arriva la vera sorpresa della serata: ecco infatti salire sul palco il londinese Adem imbracciando la sua chitarra Martin ed accompagnato da due ragazze, Nancy Elizabeth e Sarah Jones. La particolare alchimia creata dal trio, utilizzando oltre la sopraccitata chitarra folk alcuni strumenti poco convenzionali (un mortaio di bronzo usato a mo’ di campana buddista, uno xilofono ed un tamburello giocattolo, per non parlare poi della grancassa della batteria della Jones, che altro non era che la valigia dello stesso Adem Ilhan), dà vita ad un live set in cui per l’ennesima volta si ha la riprova che la musica può sorprendere anche quando è ridotta all’essenziale, quando un ispirato impasto vocale, combinato con efficace sostegno ritmico riesce ad emozionare nella sua disarmante semplicità. La scaletta, purtroppo composta da soli 9 brani per un’oretta di concerto, è costituita essenzialmente dai due album da solista dell’ex bassista dei Fridge, il secondo dei quali, ‘Takes’, composto da cover di brani tutti degli anni 90 di artisti di provenienza quanto mai varia, quali PJ Harvey, Lisa Germano, Aphex Twin. Il brano più significativo è indubbiamente la rivisitazione di ‘Hotellounge’ dei dEUS, reinterpretata mantenendone tutto l’intimo calore, ma in una versione più naif e neofolk davvero suggestiva. La sincerità di intenti, il trasporto ed il coinvolgimento delle due ragazze hanno reso lo show particolarmente gradevole; le capacità compositive di Adem, evidenziate da Love and Other Planets, title track del primo album sono indubbiamente notevoli.
Dopo averlo conosciuto di persona alla fine dello show, abbiamo avuto la conferma che dietro l’enorme timidezza malcelata dietro agli occhiali da nerd si nasconde un’anima candida ed un piccolo miracolo di equilibrio tra songwriting d’autore e minimalismo.
Annunciato come l’esploratore più sperimentale della cultura del sud ovest degli USA, Howe Gelb si accomoda al pianoforte, spiazzando i presenti con un ragtime strumentale da saloon, seguito da un altro paio di brani più adatti ad un piano bar che al palco dell’Init. Si passa poi ad atmosfere rockabilly, esaltate da una Gibson acustica di almeno 50 fa. La scaletta è bandita, spazio all’improvvisazione e, fortunatamente, col trascorrere dei minuti, il concerto sale di tono, la calda voce di Howe comincia a carburare, i brani più convenzionali e legati alla tradizione country-bluegrass lasciano posto ai brani del recente proVISIONS, album che ha interrotto il silenzio di quattro anni del gruppo statunitense. La personalità del leader sovrasta il resto della band, dove, ad eccezione di Anders Petersen, davvero efficace soprattutto alla slide, gli altri due musicisti appaiono davvero schiacciati e ridotti al ruolo di puri comprimari. Il concerto va avanti tra alti e bassi, il nostro eroe non appare in grande forma e sembra non avere le idee molto chiare sul da farsi. La situazione diventa più interessante quando torna sul palco Lonna Kelley, che duetta con Gelb, creando la giusta contrapposizione tra cupo e solare, tra inquietudine e serenità, ripetendo la formula già sperimentata con successo da Mark Lanegan con Isobel Campbell.
Lonna se ne va, ed il finale sembra riallacciarsi all’approssimazione iniziale, con i bis davvero raffazzonati che non lasciano una buona impressione nel folto pubblico presente. La sensazione è che il gruppo renda meglio quando affronta ballads più acustiche ed ipnotiche, in cui la sabbia del deserto, la stessa che avvolge i Calexico di John Convertino, vecchio compagno di avventure di Howe Gelb, prende il sopravvento e ricopre tutto di un velo di stralunata desolazione.
Molto meno efficace la parte elettrica, più raffazzonata e scontata, in cui mancano i guizzi geniali ed emozionanti di brani come World Stand Still.
Resta molto positiva, comunque l’impressione generale: la lunga serata così articolata e varia è stata comunque contrassegnata da alcuni momenti davvero emozionanti, soprattutto perché inattesi.

Recensione by Fabrizio

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