Giu 132009
 

All Tomorrow’s Parties – The Nightmare Before Christmas 2008, curated by The Melvins and Mike Patton – Butlins, Minehead (UK) – 5-7/12/2008

L’All Tomorrow’s Parties è probabilmente il festival definitivo: costruito su un approccio alla musica e alla sua fruizione diametralmente opposto, e contrapposto, a quello dominante, prende il nome ovviamente dalla canzone dei Velvet Underground, e ha ospitato negli anni (la prima edizione è del 2000) i migliori nomi della scena alternativa e d’avanguardia mondiale. I concerti si tengono sempre in piccole venues (in Inghilterra o negli U.S.A., e da quest’anno anche in Australia), in un ambiente decisamente più intimo rispetto ai grandi campi che ospitano i più famosi festival europei, e gli artisti e gli organizzatori sono ospitati negli stessi alloggi degli spettatori del festival. Ma soprattutto, ed è questa la più importante caratteristica dell’ATP, il cartellone del festival è curato di volta in volta da un artista che invita a suonare i suoi musicisti preferiti (Thurston Moore dei Sonic Youth ha definito il festival “the ultimate mix tape”, la compilation definitiva): è toccato negli anni a nomi del calibro di Slint, The Mars Volta, Mudhoney, Dinosaur Jr., Portishead. La prima edizione, del 2000, fu curata dai Mogwai e ospitò fra gli altri Sigur Rós, Sonic Youth, Aphex Twin, Shellac e Godspeed You! Black Emperor. Anche Matt Groening (sì, proprio il creatore dei Simpson) e l’attore Vincent Gallo ne hanno curato un’edizione ciascuno.
L’edizione prenatalizia di quest’anno si è tenuta nel Butlins Holiday Resort di Minehead (una delle sedi abituali dell’ATP), un luogo buffo e incredibilmente kitsch, arredato come una nave da crociera e rigonfio di pub e sale giochi, a prima vista per nulla adatto ad un festival rock. I concerti sono divisi fra due palchi, situati in ambienti che contengono rispettivamente 2000 e 3000 persone, il che, come già detto, consente di vedere lo show sempre in maniera ottimale. In più gli inglesi (la gran parte del pubblico del festival) sono spettatori molto tranquilli e per questo ci è stato possibile seguire moltissimi concerti, anche quelli degli artisti più importanti, in primissima fila.
E ora i curatori: i nomi di questo ATP sono stati scelti nientemeno che da Mike Patton e dai Melvins. Questo ha fatto sì che il programma fosse a dir poco variegato e open-minded, affiancando la follia dei Fantômas al pop/rock dei Black Heart Procession, l’hip-hop di Dälek al punk dei The Damned, l’elettronica di Squarepusher al folk balcanico dei Farmers Market, e si potrebbe andare avanti per molto…
…e invece andremo con ordine: ovviamente siamo riusciti a vedere circa la metà degli artisti, visto che i concerti sui due palchi si susseguivano in parallelo, e dunque quello che leggerete sarà un (lunghissimo) resoconto del tutto personale. In ogni caso, per quanto tutti ma proprio tutti gli artisti fossero degni di interesse, siamo riusciti a non perderne nessuno fra quelli da vedere a tutti i costi (a parte i nostri concittadini Zu, che purtroppo suonavano in contemporanea con gli Isis, ma che comunque conosciamo a memoria).

5 dicembre – day one

Ad inaugurare il festival sul main stage ci pensano i Melvins 1983, ovvero la formazione originale dei Melvins (King Buzzo, l’attuale batterista Dale Crover al basso, e Mike Dillard alla batteria) alle prese con il suo repertorio punk-rock risalente all’inizio degli anni ’80. Niente di trascendentale, ovviamente, ma 20 minuti di show davvero divertente, che in più punti ci ha fatto pensare che in fondo i Nirvana (almeno quelli di Bleach) non hanno inventato niente. E chi scrive adora i Nirvana alla follia… ★★★☆☆
Un breve cambio di palco ed ecco i Big Business, un duo basso-batteria che fra l’altro costituisce metà della formazione attuale dei Melvins. Il suono che riescono a produrre in due soli (e senza chitarra!) è sorprendentemente enorme e potente, e il concerto scorre alla grande: brani semplici e d’impatto, ma mai banali e con l’ottima voce del bassista Jared Warren in primo piano. A circa metà concerto vengono raggiunti sul palco da Dale Crover, batterista (guardacaso) dei Melvins, in questo caso in veste di chitarrista: il suo apporto ingrossa ulteriormente il suono dei Big Business e porta una piccola ventata di nuovo nelle canzoni che stavano diventando un po’ ripetitive. L’influenza dei Melvins nelle composizioni si sente, ma i Big Business mantengono comunque un’ottima personalità. ★★★½☆
Ci spostiamo al piano di sotto, dove si trova il palco più piccolo, per vedere in azione i MadLove (al loro secondo concerto in assoluto), ultima creatura del bassista Trevor Dunn, braccio destro di Mike Patton nei Fantômas e nei defunti Mr. Bungle, tra le altre cose. Il loro è un rock classico, melodico, con qualche venatura pop e qualche sferzata un po’ più dissonante. Alcune idee sono molto interessanti, ma in molti brani, specialmente nei ritornelli, le linee vocali sembrano un po’ forzate, come se volessero risultare imprevedibili a tutti i costi. Ottimo invece il lavoro della sezione ritmica, formata da Trevor stesso e dallo straordinario batterista Ches Smith, e bravo pure il chitarrista Hilmar Jensson, mentre ci hanno convinto meno il tastierista Erik Deutsch, che aveva dei suoni spesso fastidiosi, e la cantante Sunny Kim, ennesima cattiva imitatrice di Bjork. Band comunque nient’affatto spiacevole: attendiamo la prova su disco. ★★★☆☆
Si torna al main stage per uno dei live show più schizzati a cui si possa assistere, quello dei The Locust. In quattro, disposti uno accanto all’altro sul palco, mascherati con delle assurde uniformi da locuste, suonano alla grande un devastante ed eclettico grindcore fatto di pezzi brevissimi (al massimo un paio di minuti, salvo rare eccezioni), con stacchi improvvisi e sfuriate velocissime, e arricchiti dai suoni claustrofobici che Joseph Karam produce con il suo synth. Le parti vocali (si fa per dire: è uno screaming meravigliosamente spaventoso e distruttivo) sono a cura dello stesso Karam, del bassista Justin Pearson e del chitarrista Bobby Bray. Semplicemente impressionante per potenza, velocità e precisione, ma soprattutto per creatività il batterista Gabe Serbian. Insomma, pazzeschi. ★★★★☆
Gli Isis erano una delle principali ragioni per cui non ci siamo fatti sfuggire questo festival, e non hanno minimamente disatteso le aspettative, con un’ora di concerto superba, perfetta sotto ogni aspetto sia tecnico sia emozionale. La scaletta ha pescato principalmente dagli ultimi due album, l’ultimo “In The Absence Of Truth”, da cui sono stati tratti gli splendidi singoli “Dulcinea” e “Holy Tears”, e il precedente capolavoro “Panopticon”, dalla quale provengono la commovente “So Did We”, suonata in apertura di concerto, “In Fiction” e “Grinning Mouths”. I suoni sono potenti e perfetti; la voce di Aaron Turner è straordinaria nello screaming e ora, diversamente da qualche anno fa, anche impeccabile nelle parti pulite; gli intrecci fra le chitarre e la tastiera sono raffinati e non lasciano neanche una nota fuori posto; il basso di Jeff Caxide ha un suono unico, ricco di effetti, notevole punto di forza del timbro complessivo della band. Il concerto si è chiuso nel migliore dei modi con “The Beginning And The End”, opener del grandioso “Oceanic”, ma non prima di aver presentato un nuovo pezzo che comparirà nell’album in uscita nel 2009. Per vedere gli Isis abbiamo rinunciato agli Zu, ma ne decisamente è valsa la pena.
★★★★★
Dal polveroso scaffale dell’alternative rock degli ’80 e ’90 vengono riesumati nientemeno che i Meat Puppets, band leggendaria, non solo per essere stata ospite di quell’“Unplugged in New York” che fu il canto del cigno dei Nirvana, ma anche per aver dato alle stampe album seminali come, su tutti, “Meat Puppets II”. I fratelli Kirkwood, Curt alla chitarra e Chris (praticamente resuscitato dopo anni di devastante dipendenza dall’eroina) al basso, insieme al nuovo (e piuttosto scarso) batterista Ted Marcus, hanno suonato un’ora del loro peculiare e divertente country-punk. La prova chitarristica di Curt è davvero notevole: il suo è uno stile personalissimo che mescola chitarrismo rock, quasi à la Jimi Hendrix, e tecnica country. Ottime anche le armonie vocali dei due fratelli. E riascoltare a distanza di anni quelle tre canzoni rese famose dai Nirvana (“Plateau”, “Oh Me” e “Lake Of Fire”) ci ha emozionato non poco. ★★★½☆
L’ultimo show della giornata è quello degli Os Mutantes, un’importante band brasiliana fondata negli anni ’60, protagonista di un buffissimo concerto al limite del kitsch: il loro genere è un pop divertente, coinvolgente e molto variegato, dove (neanche bisogna dirlo) dominano incontrastati i ritmi sudamericani, suonato in modo davvero brillante e decorato da straordinarie armonie vocali (spesso cantano contemporaneamente sei degli otto musicisti sul palco). A guidare la band il surreale e bravissimo cantante e chitarrista Sérgio Dias Baptista, visibilmente divertito dalla reazione entusiastica del pubblico. ★★★☆☆

6 dicembre – day two

Il secondo giorno del festival inizia sul palco piccolo con i tedeschi Bohren & Der Club Of Gore, band fautrice di un ambient-doom-jazz fatto di atmosfere molto cupe ed avvolgenti costruite con un approccio decisamente minimale: tutto il suono è fatto di tappeti di tastiere, basso e appena un accenno di batteria. In alcuni brani, probabilmente i migliori, compare anche un sassofono. I suoni e il mood creati sono decisamente interessanti, anche se i pezzi risultano un po’ ripetitivi, per quanto validi se presi singolarmente. ★★★☆☆
Ci spostiamo subito al palco principale, giusto in tempo per vedere gli ultimi brani del concerto di Junior Brown, un eccezionale chitarrista country alle prese con uno strano strumento a due manici, fusione di una normale Fender Telecaster e di una chitarra lap steel. Lo accompagnavano semplicemente un bassista ed un batterista, entrambi molto bravi e completamente al servizio dell’indiscusso protagonista: il concerto è molto piacevole da ascoltare e divertente da vedere, anche se il country non è esattamente il nostro genere preferito, e Junior Brown è un vero virtuoso. ★★★☆☆
Tutt’altra cosa è lo squassante set dei Mastodon, uno dei nomi più famosi e importanti di questo festival, e uno dei gruppi metal contemporanei più originali. Purtroppo si presentano in una formazione monca, priva del chitarrista Bill Kelliher, che si sta riprendendo da una malattia. Il rimanente trio ha fatto di tutto per non far sentire la mancanza di Bill, e sostanzialmente ci è riuscito, con una performance potentissima e compatta. Il bassista Troy Sanders e il chitarrista Brent Hinds (che ha usato principalmente una chitarra a 12 corde per sopperire almeno in parte all’assenza di Bill nel muro sonoro solitamente prodotto dalla band) si dividono le parti vocali entrambi in uno stile personalissimo, e sciorinano uno dopo l’altro riff devastanti, mentre Brann Dailor dietro le pelli è una instancabile macchina da rullate, incredibilmente preciso e creativo. La scaletta è incentrata sugli ultimi due splendidi album “Leviathan” e “Blood Mountain”, e i brani sono semplicemente uno meglio dell’altro, citiamo su tutti “Crystal Skull”, “Blood and Thunder”, “Megalodon” e “Iron Tusk”. Non manca un passo indietro al loro primo disco “Remission”, con “March Of The Fire Ants”, e la chiusura è affidata ad una cover di “Emerald” degli irlandesi Thin Lizzy, con ospite sul palco il tecnico delle chitarre, irlandese anche lui. Un concerto grandioso. ★★★★★
E giunge finalmente il turno dei padroni di casa, i Melvins. Storicamente un power trio, hanno iniziato da qualche anno a girare come quartetto, con due batterie: il leggendario nucleo storico composto da King Buzzo, chitarra e voce, e Dale Crover, batteria e voce, è affiancato dai Coady Willis e Jared Warren, ovvero i Big Business. I pezzi sono estratti in buona parte dall’ultimo ottimo album “Nude With Boots”, di cui spiccano la opening track “The Kicking Machine”, cantata a due voci da King Buzzo e Jared Warren, “Billy Fish”, la lunga “Dog Island” e la title-track, ottimo esempio dell’incredibile sincronia e potenza della coppia di batteristi Dale Crover e Coady Willis. L’esibizione si conclude con un esilarante rivisitazione dell’inno nazionale americano, che Jared Warren canta tenendo sul cuore la parrucca che ha indossato per tutto il concerto. Un gruppo che dopo 25 anni di carriera non accenna a volersi fermare né a smettere il divertimento. ★★★★½
Tra i più importanti ospiti del festival ci sono anche gli storici Butthole Surfers, californiani. Anche loro hanno due batteristi, fra cui una donna che suona il suo strumento in piedi, ma i risultati sono decisamente meno interessanti rispetto a quelli dei Melvins. Il cantante e leader Gibby Haynes sembra particolarmente divertito, e diverte il pubblico, e il resto del gruppo suona davvero bene. La loro musica si muove fra un rock ubriaco, il punk e il noise più puro, il tutto condito con massicce dosi di lisergica psichedelia, e per tutto il concerto si mantiene su ottimi livelli.
★★★½☆
Gli altri padroni di casa, i Fantômas, creatura partorita dal genio di Mike Patton, sono per moltissimi il gruppo più atteso. Purtroppo privi di Dave Lombardo, comunque validamente sostituito da Dale Crover dei Melvins (che nel corso di tutto il festival ha suonato con ben cinque gruppi diversi), propongono interamente lo straordinario album del 2001 “Director’s Cut”, folle rivisitazione di 15 temi tratti dalle colonne sonore di altrettanti film, soprattutto oscuri horror-movies, ma anche qualche grande capolavoro, uno su tutti “Il Padrino”.E il concerto inizia proprio con il bellissimo tema di Nino Rota, nella cui rivisitazione si alternano momenti di quiete (ed è un occasione unica per vedere un picchiatore come Crover con delle maracas in mano…) e momenti di violenza furiosa. Bellissime “Rosemary’s Baby”, “Investigation of a Citizen Above Suspicion”, “Cape Fear”, la violentissima “The Omen”, ma ogni singolo pezzo è colmo della genialità schizofrenica di Mike Patton, con King Buzzo, Trevor Dunn e Crover che lo supportano impeccabilmente. I Fantômas dal vivo sono semplicemente imperdibili. (Sono talmente imperdibili che li abbiamo visti suonare anche il giorno dopo: concerto analogamente straordinario, ma in più chiuso da una incredibile cover di “Simply Beautiful” di Al Green, ennesima dimostrazione dell’estremo eclettismo della band di Patton.) ★★★★½
Dopo tutte queste meraviglie una dopo l’altra riprendiamo il fiato con il concerto di Martina Topley-Bird, un tempo la voce sui dischi di Tricky, figura di spicco della scena trip-hop della vicina Bristol. Martina suona diversi strumenti fra chitarre, tastiere e percussioni varie, e la sua band ha un sound particolare, così come particolare è il timbro della sua voce, ma la musica non riesce a catturare la nostra attenzione, risultando piuttosto noiosa e monotona.
★★☆☆☆
Di tutt’altro tenore è invece l’incredibile show di Rahzel, detto “the Godfather of Noyze”, o anche “the Human Beat-Box”. Di base Rahzel è un rapper, ma soprattutto è un beat-boxer, in parole povere uno che fa con la voce qualsiasi suono o rumore gli venga in mente, drum-machine comprese. E il concerto, è meglio dire spettacolo, è un continuo siparietto del tipo: “so fare Seven Nation Army dei White Stripes” (il tristemente famoso po-po-po), e quando la fa sembra di sentire il disco originale, mentre produce a voce dei bassi spaventosi che fanno vibrare tutta la sala. Stessa cosa con “Iron Man” dei Black Sabbath in versione dance. Oppure “qualsiasi cosa faccia il mio DJ io la so fare meglio”, e poi imita alla perfezione tutti i beat e gli scratch e i suoni che il suo DJ mette su, anche più suoni contemporaneamente, e come fa gli scratch con la voce è semplicemente incredibile. Detto così suona come un fenomeno da baraccone, ma al contrario lo show è divertentissimo, e l’abilità di Rahzel è disumana. ★★★★☆
Ultimo act della giornata (intorno alle 2 di notte…) sono i Soulsavers, con lo straordinario Mark Lanegan come ospite. I Soulsavers sono un duo e suonano una musica elettronica lenta e scura, a tratti paragonabile al trip-hop.
Stavolta si presentano però con una band rock al completo, con tanto di coristi, ben più adatta alle atmosfere a cui ci ha abituato l’ultimo Lanegan. I brani sono lenti e scuri, con echi gospel, grandi suoni e un mood generale in cui si immerge perfettamente l’inconfondibile e sensuale timbro basso di Mark, che come sempre si sorregge immobile all’asta del microfono, e canta a occhi chiusi, con un’intensità davvero irraggiungibile. Fra i pezzi suonati, molti dei quali tratti dal recente album che Lanegan e i Soulsavers hanno pubblicato assieme, viene anche ripescata la splendida “Kingdoms Of Rain”, tratta da uno dei capolavori solisti dell’ex cantante degli Screaming Trees, “Whiskey for the Holy Ghost”. Alla fine sarà un’ora di concerto bellissima, degna chiusura di una giornata strepitosa.

★★★★☆

7 dicembre – day three

Dopo l’incredibile sbornia musicale della giornata precedente iniziamo l’ultimo giorno di festival con il concerto di Leila, una DJ iraniana, inglese di adozione. Nel corso del concerto si avvale per la maggior parte dei pezzi della collaborazione di un chitarrista, e sul palco con lei si alternano diversi cantanti, tra cui anche Martina Topley-Bird. Purtroppo l’attrezzatura della DJ soffre di moltissimi problemi tecnici per tutta la durata del concerto, producendo dei rumori inquietanti, e non riusciamo a capire bene quale sia il vero valore dei suoi pezzi. Da quello che abbiamo intuito, però, sebbene avesse alcune sonorità interessanti la sua musica ci è sembrata piuttosto monotona, e non abbiamo colto un qualche filo conduttore fra i diversi brani.
★★☆☆☆
Da un cilindro norvegese vengono estratti i Farmers Market, per chi scrive una delle sorprese più gradite dell’intero festival. Nonostante la provenienza scandinava la loro musica è uno spumeggiante folk bulgaro, mischiato con sapori jazz e una notevole potenza rock. Leader del gruppo è lo straordinario Stian Carstensen, che suona da virtuoso chitarra, lap-steel guitar, fisarmonica e kaval (un flauto bulgaro), oltre ad essere un cantante grandioso.
Bravissimi anche il chitarrista Nils-Olav Johansen, che doppia con la voce i suoi assoli velocissimi, e il sassofonista Trifon Trifonov, l’unico bulgaro della band, protagonista di duetti incredibili con Stian Carstensen. La band è perfetta, si diverte e diverte il pubblico. Una grande sorpresa. ★★★½☆
Altro show allucinante è quello dei Monotonix, un trio israeliano che suona una specie di garage rock molto energico, ma soprattutto è in grado di mandare completamente fuori di testa tutto il pubblico: i Monotonix non suonano sul palco, ma hanno disposto i loro strumenti in mezzo al pubblico. Dopo un paio di pezzi la batteria comincia ad essere smontata e i vari pezzi passano di mano in mano fra gli spettatori, e poco dopo il cantante Ami Shalev, in mutande, è in piedi in equilibrio sulla cassa sorretta dal pubblico. Il seguito è un crescendo di delirio della band e del pubblico, tanto che il concerto finisce fuori dal locale, al freddo, quando ai Monotonix è rimasto soltanto qualche pezzo della batteria. Non abbiamo capito molto dell’aspetto musicale dei Monotonix, ma lo show è davvero unico. ★★★☆☆
Tocca quindi al duo hip-hop Dälek, uno dei nomi storici e più importanti della Ipecac Recordings di Mike Patton. DJ Oktopus si occupa di stratificare suoni e rumori, fino a quasi coprire la voce di MC Dälek, che canta ad occhi chiusi e con grande intensità. Per l’occasione il duo è affiancato da tre chitarristi, che con le loro lap steel contribuiscono ulteriormente all’enorme colata lavica di suoni. I pezzi si susseguono quasi senza pause, e mostrano le innumerevoli influenze che il duo si porta dietro: è un grande e caotico miscuglio di suoni industriali, rock, e una tonnellata di psichedelia, che permette alla più vasta gamma di ascoltatori di apprezzare la produzione di questo gruppo. ★★★½☆
In mezzo a tutta questa follia sperimentale e a tutti questi gruppi decisamente fuori dal comune l’innocuo indie rock dei Black Heart Procession risulta quasi fuori luogo. La loro infatti è una musica semplice, fatta di strutture e armonie piuttosto tradizionali, ma non per questo priva di valore. I brani suonati dal quintetto californiano, guidato dal cantante Pall Jenkins, risultano infatti piacevoli, e mostrano qualche buono spunto melodico. Prevale comunque la sensazione che sia una musica troppo lineare, senza nulla in grado di catturare davvero la nostra attenzione, probabilmente in parte distratta dalla sbornia causata dal fin troppo eclettico programma del festival. ★★★☆☆
Quando giunge il momento della leggenda punk inglese The Damned, ci assale il dubbio che possano essere uno di quei gruppi mummificati che fanno la parodia di se stessi trent’anni prima. Beh, non ci siamo mai sbagliati tanto, e veniamo smentiti da uno show folgorante. La band è capitanata dai due membri storici Dave Vanian, cantante in impeccabile completo nero con tanto di papillon e guanti di velluto, e Captain Sensible, chitarrista dall’aspetto decisamente più punk, con berretto rosso e occhiali da sole. Ai brani strettamente punk della fine degli anni ’70 i Damned affiancano anche pezzi, anch’essi molto validi, provenienti dalle produzioni degli anni ’80, più vicine ad una sorta di gothic rock con tinte psichedeliche. Tutto viene suonato alla perfezione, e Vanian si dimostra un frontman e un cantante straordinario, che può ricordare in alcuni atteggiamenti e per il grande carisma palco addirittura il grande Freddy Mercury. Esilarante il finale in cui Captain Sensible canta l’hit single che lanciò la sua carriera solista negli anni ’80, “Happy Talk”, cover di un brano del musical “South Pacific”, finendo mezzo nudo, sdraiato sul palco a ridere mentre i suoi tecnici cercavano di riportarlo dietro le quinte e di coprirlo. Uno dei migliori show di tutto il weekend. ★★★★½
La performance del rapper Kool Keith, accompagnato dal DJ KutMasta Kurt non offre le attrattive psichedeliche di Dälek, o quelle spettacolari di Rahzel, invitanti specialmente per coloro che, come chi scrive, non amano l’hip-hop tout court, e per questo motivo ci lascia piuttosto indifferenti. Il pubblico sembra comunque gradire. ★★☆☆☆
Veniamo quindi all’ultimo act del weekend, che chiude il festival quando ormai sono passate le 4 del mattino, ovvero Squarepusher. L’artista gallese, uno dei più importanti autori contemporanei di musica elettronica, in questa occasione suona anche il basso, e lo fa da vero virtuoso, sulle sue complicatissime basi, e per lunghi tratti è accompagnato anche da un eccezionale batterista, Alex Thomas. Il tutto è condito da un light show di prim’ordine. Il pubblico balla entusiasta sulle sofisticate sovrapposizioni di suoni (anche il basso ha un suono particolarissimo), ed effettivamente è proprio dal punto di vista sonoro che l’opera di Squarepusher ci convince di più. Al contrario soffriamo il fatto che i pezzi abbiano tutti lo stesso tempo (come è giusto per una musica che deve essere ballata), e per questo, a parte qualche variazione interessante ai limiti del prog e del jazz, ci risultano a lungo andare piuttosto monotoni. Va detto che potrebbe essere colpa nostra, e delle nostre orecchie stanche per il festival e poco avvezze a suoni così nuovi. ★★★☆☆

Durante il primo dei due concerti dei Fantômas, neanche a metà del secondo giorno di festival, Mike Patton ha detto “I’ve seen more amazing music in the last day and a half than in the last ten and a half fucking years…”. Difficile sintetizzare meglio di così un’esperienza musicale talmente irripetibile e totalizzante. Resta solo da aspettare che l’ATP proponga di nuovo un programma altrettanto sbalorditivo e potremo con sollievo eliminare quel fastidioso aggettivo “irripetibile”.

Report di Andrea Carletti

  One Response to “All Tomorrow’s Parties: The Nightmare Before Christmas 2008”

  1. ho bisogno del vostro aiuto: io ci vado dal 3 al 5 dicembre all’ATP organizzato dai Godspeed You! Black Emperor.
    Potete dirmi qual è la migliore soluzione per arrivare e rientrare? Io parto da Roma, ma temo che il problema sia il quantitativo di tempo che ci vuole per raggiungere sto posto… voi come avete fatto?

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