Gen 182011
 

Roma, Auditorium, 13 gennaio 2011

★★★½☆

Ne è passata tanta di acqua sotto i ponti dall’esordio degli Ardecore. Sono solo trascorsi sei anni dal loro album di debutto, quello che mi fece innamorare profondamente della loro visione della musica, eppure l’evoluzione della band di Giampaolo Felici è stata tale da lasciar pensare che di tempo ne sia passato molto di più. Sia ben chiaro, parliamo di evoluzione, non di trasformazione o metamorfosi, ma di certo nel 2005 nessuno avrebbe potuto immaginare l’approdo raggiunto con il recente doppio album San Cadoco. Indubbiamente l’incontro con la cantante Sarah Dietrich ha impresso un’accelerazione di alcuni processi compositivi e creativi di cui già si trovava traccia nel precedente ‘Chimera‘ del 2007. Sin da allora era chiaro l’obiettivo di allargare l’ambito musicale, inizialmente molto legato alla tradizione popolare romana, senza però perdere di vista l’amore profondo per la reinterpretazione degli stornelli in chiave blues, semmai virandolo verso il dixieland ed il vaudeville. Eccoci ora giunti ad un passo decisivo, oserei dire determinante: il nuovo repertorio, variegato e multiforme nelle sue numerose sfaccettature, a volte molto distanti tra loro per stile e sonorità, è comunque pervaso ed accomunato da un’idea fondamentale: la dicotomia come aspetto determinante dei propri orizzonti poetici. Chiaro e scuro, tradizione ed innovazione, novecento e ventunesimo secolo, maschile e femminile, tenebre e luce accecante.
Una chiara ed inequivocabile riprova di questo processo evolutivo l’abbiamo avuta in occasione della presentazione dal vivo del nuovo disco al pubblico dell’Auditorium. Alle difficoltà inevitabili nel promuovere un nuovo album, soprattutto ‘questo’ nuovo album -non a caso un CD doppio-, se ne è aggiunta inaspettatamente un’altra: chi pensava che suonare davanti al pubblico di casa potesse rivelarsi un vantaggio non aveva fatto i conti con la strana atmosfera che spesso si respira all’interno dei tre scarafaggi di Renzo Piano. Un’aria un po’ ingessata e rigidamente accademica, unita a ricorrenti problemi di bilanciamento dell’amplificazione ha di certo complicato il già difficile compito di un quasi debutto, proposto con una band nuova di zecca alle prese con un così corposo numero di brani inediti. Il disagio iniziale era lampante, sia per le orecchie degli spettatori, privati degli altoparlanti in sala e costretti ad intuire le parti vocali, ascoltabili solo attraverso le spie sul palco, sia per gli stessi musicisti, in evidente difficoltà in un ambito così freddo e rarefatto. Giampaolo Felici è però riuscito a rompere il ghiaccio, con alcune frasi smozzicate ed apparentemente sensa senso, che hanno esorcizzato questo imbarazzo e che sono riuscite a sdrammatizzare la situazione e riscaldare l’ambiente. Finalmente è stato possibile concentrarsi sulla musica e sui loro interpreti. Il gioco di contrapposizioni si evidenzia col trascorrere dei minuti e lo svolgersi della scaletta: al luciferino Giampaolo Felici, a tratti indemoniato, fa da contraltare l’angelica Sarah. Alla grinta accesa e terrena si alterna l’eterea dolcezza. Ai nuovi brani più sanguigni (il rovente, sporco tango di Meravigliosamente, il punk di Per quella lei ci muore, forse il brano più sorprendente dell’intero concerto) si alternano altri nuovi brani soavemente delicati (il ripescaggio di Tentazione -quasi un brano da Cafè-chantant- oppure la struggente Io de sospiri). Passione violenta, amori disperati, rose e coltelli si susseguono; fa capolino un nuovo approccio autoriale dalle sonorità quasi prog-rock, imbracciando la Fender rossa come il fuoco ed abbandonando per sempre la chitarra acustica di tante esibizioni live del passato. Cantando in italiano, senza però abbandonare la fonte romanesca alla quale ci si abbbevera sovente.
Il rimbalzo prosegue: sacro e profano nei racconti laici dei santi Cadoco e Gilda, ninnenanne, il racconto di un amore tanto forte da comportare l’inutile sacrificio dell’onore per salvare la vita del marito condannato a morte- la splendida Cecilia, che su CD ospita il canto inconfondibile di David Tibet– che ci riporta ad atmosfere più vicine al primo album.
La volontà di allargare il proprio panorama non implica automaticamente l’abbandono della ricerca nella tradizione: ecco infatti arrivare un brano della compianta Gabriella Ferri, l’avvelenata filastrocca Te possino dà tante cortellate, con la quale si chiude il concerto prima dei bis.
Questa seconda parte è stata invece totalmente incentrata sul repertorio precedente: Lupo de fiume, il blues in 3/4 di M’affaccio alla finestra con un ottimo assolo di piano di Ludovica Valori, Sinnò me moro, impreziosita ora dal canto della Dietrich e sicuramente più fedele all’originale, per chiudere con un classico del calibro di Come te posso amà, cantata a squarciagola con disperata partecipazione da entrambi i cantanti.
Concerto asciutto, calibrato, che rappresenta sicuramente un punto di svolta nel percorso degli Ardecore, non più ensamble aperto all’improvvisazione-figlia dell’incisivo marchio di fabbrica degli Zu– ma misurata, disciplinata ma scorbutica band a cui va strettissimo qualsiasi genere di etichetta e da cui è lecito aspettarsi ancora grandi sorprese e nuove emozioni.

Recensione e foto di Fabrizio

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