Mag 012013
 

 Roma, Auditorium Parco della Musica, Sala Petrassi, 12 aprile 2013

★★★½☆

All’interno del Patti Smith “My Festival”, che ha visto alternarsi nell’ arco di due settimane personalità importanti e variegate quali Philip Glass, Nicola Piovani, Meshell Ndegeocello e Vinicio Capossela (oltre ovviamente alla cantante americana che ha eseguito l’intero album Horses), ha trovato spazio anche la splendida voce di John Grant, che torna così a suonare nell’Auditorium di Roma a meno di due anni di distanza dalla sua ultima apparizione, promosso questa volta dal Teatro Studio alla ben più capiente Sala Petrassi.

Ex-leader dei defunti Czars e ancora fresco dell’ unanime e entusiasta accoglienza nei confronti del suo primo disco solista Queen of Denmark, Grant ha da poco pubblicato sempre per la Bella Union (etichetta tra gli altri dei Beach House, Father John Misty e Andrew Bird) l’album Pale Green Ghosts, un lavoro che ha suscitato non pochi contrasti sia tra i critici musicali sia tra gli ascoltatori più affezionati: se il debutto era caratterizzato da un raffinato songwriting folk-pop in perfetto equilibrio tra malinconia e solarità, la seconda prova discografica vede invece emergere invadenti sonorità elettroniche memori di gruppi quali Supertramp, Eurythmics e Depeche Mode, che in particolar modo nella prima parte lasciano molto amaro in bocca: le composizioni di Grant sembrano infatti sommerse e soffocate da un inutile strato di sintetizzatori e loop elettronici che appaiono del tutto fuori luogo, alla maniera di Sufjan Stevens e del suo discusso The Age of Adz; una sensazione che sembra emergere anche dallo spettacolo live, seppure fortunatamente in misura assai più ridotta.

Al contrario del tour del 2011, durante il quale il cantante era accompagnato soltanto dall’ottimo Chris Pemberton (presente comunque anche questa sera nelle vesti di tastierista), sul palco troviamo ora anche altri quattro musicisti, tutti provenienti dall’Islanda, paese nel quale Grant si è trasferito recentemente. Il primo brano, Ernest Borgnine (titolo che omaggia il grande attore scomparso l’anno scorso) funge da apertura in maniera non del tutto ottimale, piuttosto incerta se seguire atmosfere trip-hop o new-wave; un po’ meglio va con You Don’t Have To, dalla quale in qualche modo l’anima pop del cantautore riesce seppure con molte difficoltà a emergere; siamo così assaliti dal timore che la componente elettronica dominerà incontrastata tutto lo show. Per fortuna veniamo immediatamente smentiti da un ottima sequenza di brani in cui il talento di Grant viene finalmente messo in evidenza, in particolar modo nell’esecuzione di GMF. Il cantante appare perfettamente a suo agio e presenta ogni canzone con calma e fascino, riuscendo a relazionandosi con il pubblico con grande semplicità e efficacia. Echi del miglior rock melodico della seconda metà degli anni 70 di artisti dal calibro di Elton John e degli America aleggiano all’interno della sala Petrassi anche grazie all’aiuto di una band davvero all’altezza, eccezion fatta per il chitarrista, che non sembra essere riuscito a interpretare le composizioni di Grant con il giusto spirito.

Purtroppo con l’esecuzione di Pale Green Ghosts inizia una sequenza di brani che riporta il live alle atmosfere elettroniche iniziali, ma con risultati ancor più deludenti, facendo letteralmente sprofondare lo spettacolo in un abisso profondo: in particolar modo Sensitive New Age Guy, dedicata a un amico suicida, appare come la pessima copia di Born Slippy degli Underworld (inserita nella colonna sonora di Trainspotting), e lo sconcerto tra il pubblico appare evidente.

Ma per fortuna John Grant si ricorda di essere un grande autore di canzoni, e sedendosi al pianoforte ci regala in solitaria un brano quale Glacier, che a metà tra Elliott Smith e Rufus Wainwright e con qualche (piccolo per fortuna) richiamo ai Coldplay si rivelerà essere il momento più alto del live, concludendosi con un solenne finale rock che ricorda incredibilmente il Paul Williams de Il fantasma del palcoscenico. Gli spettatori riemergono increduli dalle tenebre delle loro poltrone e premiano l’artista con un applauso immenso che coglie di sorpresa lo stesso cantante, il quale decide di cambiare la scaletta all’ultimo minuto regalandoci TC And Honeybear, la splendida traccia che apre Queen of Denmark. E sebbene appaia evidente che il brano non sia stato provato più di tanto (Grant sbaglia clamorosamente un passaggio di pianoforte) il risultato è davvero eccellente. Da qui in poi la strada è ormai completamente in discesa e i due brani finali, sempre tratti dall’album di debutto, portano il concerto a una degna e trionfale conclusione.

Ciò che era emerso in studio è risultato quindi evidente anche in sede live: l’apporto della componente elettronica risulta del tutto nociva a un songwriter di razza quale John Grant ha dimostrato di essere. La sensazione che il musicista si trovi a un passo dall’acquisire il dono di scrivere canzoni pop perfette è molto forte, ma la concessione a inutili sperimentazioni rischia di interrompere questo percorso. Una sorte che, come detto in precedenza, sembra aver colpito anche il più orchestrale Sufjan Stevens. Sarebbe bello rinchiudere entrambi in uno studio di registrazione privo di qualsiasi sintetizzatore o tastiera, armandoli unicamente di una chitarra e un pianoforte.

Siamo certi che ci troveremmo davanti al più grande disco pop-rock degli ultimi vent’anni.

Recensione di Federico Forleo

Scaletta:

Ernest Borgnine
You Don’t Have To
Vietnam
GMF
It Doesn’t Matter To Him
Pale Green Ghosts
Black Belt
Sensitive New Age Guy
Why Don’t You Love Me Anymore
I Hate This Town
Glacier
TC and Honeybear
Queen of Denmark
Marz

 Leave a Reply

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

(required)

(required)

*