Ott 312016
 

Roma, Quirinetta Caffè Concerto, 25 ottobre 2016

★★★★½

All’indomani della scomparsa di Pete Burns, amatissima icona del pop Made in UK il cui look androgino e stravagante fu di grande ispirazione per Boy George, in giro qualcuno si è chiesto se lo spirito degli anni ’80 non sia ormai svanito: per fortuna, concerti come quello dello scorso 25 ottobre al Quirinetta Caffè Concerto ridimensionano decisamente questo timore.

Il Godfather of Goth Peter Murphy, già leader dei Bauhaus e fondatore dei Dali’s Car assieme a Mick Karn dei Japan, ha portato infatti in scena le sue hit del passato e quelle più recenti vestendole – anzi spogliandole, dato che questa serie di concerti si chiama “Stripped Tour” – di arrangiamenti essenziali ma efficacissimi, con l’aiuto del valido polistrumentista Emilio China al basso elettrico e al violino e del chitarrista statunitense John Andrews (già collaboratore di Nena e Gavin DeGraw).

Al termine del ruvido e intenso opening act di Dog Byron (al secolo Max Trani, guitar-man romano innamorato del blues e del grunge), segue ancora un po’ di attesa e poco dopo le 22,30 il trio sale finalmente sul palco. Il magnetismo e la presenza scenica di Murphy sono indiscutibili: l’ininterrotto contatto visivo che stabilisce con il pubblico delle prime file rasenta l’ipnotico, le movenze sono assolutamente in tono con i brani, mai eccessive ma fortemente evocative delle figure che caratterizzano il personaggio: il volo di una creatura notturna, il raccoglimento estatico, la danza rituale. Il tutto naturalmente unito a una forma vocale perfetta, ça va sans dire.

Dopo i primi brani –  leggermente penalizzati da un suono ancora in aggiustamento – la magia del suono dark-vampiresco di Murphy & c. riesce finalmente a espandersi: da Indigo Eyes (canzone di atmosfera marcatamente pop, datata 1988, qui riproposta in una coinvolgente versione ballad) in poi, una perla dopo l’altra. Menzione speciale per Marlene Dietrich’s Favorite Poem, dall’album Deep (1989): un languido omaggio al mistero, all’arte di raccontarsi senza mai svelarsi esplicitamente.

Non può mancare naturalmente l’omaggio a David Bowie: chi non ricorda le scene di apertura del film Miriam si sveglia a mezzanotte (The Hunger, 1983, regia di Tony Scott) in cui i Bauhaus interpretano Bela Lugosi’s Dead? Belli, dannati e vampiri, (forse progenitori ideali dei vampiri di Jarmusch in Only Lovers Left Alive?) Catherine Deneuve e Bowie si avventurano in un wild party alla ricerca di sangue fresco. E dietro una grata, immerso nella luce blu, Peter.

Il brano scelto per l’omaggio è The Bewlay Brothers (Now my Brother lays upon the Rocks/ He could be dead, He could be not/He could be You / He’s Chameleon, Comedian, Corinthian and Caricature), tratto dall’album Hunky Dory (1971). Brano affascinante e dalle molteplici interpretazioni, dedicato da Bowie al fratellastro Terry, affetto da schizofrenia, ed eseguito dal Duca Bianco solamente una volta per un programma radiofonico della BBC. L’interpretazione di Murphy, accompagnato dal violino distorto di Emilio China, ha quasi l’effetto di un recitativo (del resto, lo stesso Bowie diceva scherzando che il brano “conteneva più parole di Guerra e Pace”).

 

La tensione non scende mai, fino ad arrivare all’apoteosi degli ultimi brani, gli irrinunciabili Hollow Hills, con il coro scandito dal pubblico in estasi, e Bela Lugosi’s Dead, leggendaria canzone-manifesto del goth. Se a ben trentasette anni dalla sua uscita un brano riesce a mantenere questa potenza e questo fascino possiamo dire con soddisfazione che lo spirito degli Eighties non è affatto finito: al contrario, ha ancora moltissimo da offrire agli appassionati di musica di ieri e di oggi. 

La scaletta del concerto - Foto di Fabrizio Forno

La scaletta del concerto – Foto di Fabrizio Forno

 

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Recensione di Ludovica Valori 

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