Giu 272016
 

Roma, Monk Club, 9 giugno 2016

★★★½☆

ryley1Le minacce di pioggia e il conseguente rischio di dover spostare tutto nella sala all’interno sono fortunatamente scongiurate: il concerto di Ryley Walker, annunciato con un anticipo di neanche dieci giorni e successivo di un giorno alla performance del chitarrista al Beaches Brew Festival di Ravenna, si svolge regolarmente dov’era previsto, sul piccolo palco del bel giardino del Monk con tanto di sedie sdraio, in una serata estiva ma fresca perfetta per godersi un concerto di questo tipo.

Il quasi ventisettenne chitarrista dell’Illinois è in tour con la sua chitarra acustica e poco altro, ma tanto basta per attrarre un discreto numero di persone e catturare la loro attenzione lasciandole in rispettoso silenzio. Per questa occasione le sue canzoni sono quindi depurate di tutti quegli arrangiamenti dal sapore jazz e psych che si fanno apprezzare nei suoi album in studio, particolarmente nell’ultimo splendido “Primrose Green”, nei quali il chitarrista è accompagnato da una band che è al servizio delle sue canzoni, ma che non rinuncia a esplorare interessanti momenti di improvvisazione. Nella versione completamente solista invece la musica si esalta negli aspetti più intimi e folk, oltre che nel gusto chitarristico e nella straordinaria bravura tecnica di Walker, soprattutto con il fingerpicking.

Ryley Walker ha annunciato per il prossimo agosto l’uscita del nuovo album “Golden Sings That Have Been Sung”, terzo lavoro in studio dopo “All Kinds Of You”, del 2014 e il già citato “Primrose Green” del 2015, a cui si affianca un buon numero di collaborazioni con artisti di varia estrazione. Buona parte della scaletta si concentra dunque sui nuovi brani, che proseguono il percorso iniziato con i primi due album, quello della canzone folk che non rinuncia alla modernità spingendosi oltre le strutture tradizionali, delle accordature aperte e della voce a tratti quasi timida, delle atmosfere esplicitamente debitrici verso figure uniche e straordinarie come Van Morrison (la copertina di “Primrose Green” richiama esplicitamente quella di “His Band and the Street Choir”), Nick Drake o Tim Buckley, ma anche Bert Jansch, John Martyn o il vate dell’American Primitive Guitar John Fahey. A dispetto di tutti questi riferimenti per nulla nascosti la musica di Ryley Walker è ben lontana da un’imitazione o da una riproduzione calligrafica, che peraltro risulterebbe assai poco credibile data la grandezza delle personalità in questione: i brani del chitarrista americano risultano invece freschi, sinceri, coinvolgenti nelle loro trame vocali e chitarristiche alla ricerca di serenità e di introspezione, o nei loro momenti più intensi, esplorando le dinamiche più forti che la sua bellissima Guild può consentire. Anche la complessità chitarristica della musica è sempre al servizio della canzone e dell’esplorazione di armonie raffinate, mai un virtuosismo fine a se stesso.

Ed ecco dunque la giostra di “Roundabout” affiancare la malinconia quasi à la David Crosby di “Funny Thing She Said”, la sognante “Primrose Green” (a quanto pare un orribile drink inventato con un suo amico), la triste e gentile “The Great and Undecided” e le sonorità allo stesso tempo esotiche e classicheggianti della strumentale “The Great Old Trout”. Tra un brano e l’altro Walker si mostra contento, divertito e rilassato, perfettamente a suo agio nella piacevole cornice del Monk. Fa bella mostra di sé in scaletta anche una cover della meravigliosa “Fair Play” che apriva “Veedon Fleece” proprio di quel Van Morrison che è probabilmente la più evidente fra la miriade di ispirazioni che hanno accompagnato il percorso di questo bravissimo cantautore. In questa versione l’estro vocale dell’ex frontman dei Them è messo un po’ da parte in favore di un’interpretazione più ordinata, ma comunque ispirata e che nulla toglie alla bellezza del brano.

ryley2Il concerto vola via in fretta, fermandosi poco sotto l’ora di durata e senza concedere bis, un peccato veniale, forse anche giustificato dalla scarna formula voce e chitarra, che con tempi più lunghi potrebbe risultare monotona. Probabilmente il supporto della band avrebbe creato spazio per colori diversi e per l’improvvisazione e magari allungato lo show.

Ma dopo la bella serata del Monk resta di certo la sensazione che la musica di Ryley Walker, pur non facendo gridare al miracolo per carica innovativa, abbia la capacità di prendere per mano e trasportare chi ascolta in bellissime ambientazioni eteree ed evocative, malinconiche ma serene, attingendo con cura da un linguaggio ben consolidato e colorandolo con una brillante musicalità e un’ispirazione notevole.

Live report di Andrea Carletti

foto di Fabrizio Forno

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