Set 072017
 

Macerata, Arena Sferisterio, 20 agosto 2017

★★★★☆

Thom Yorke Jonny GreenwoodSlowcult ha avuto il raro privilegio di assistere ad un evento che rimarrà a lungo negli annali della musica di qualità e di ricerca. Ciò, per chi scrive è tanto più significativo in quanto è nato nella città scelta per questo evento assolutamente fuori del comune, svoltosi in una location, l’Arena Sferisterio, che rappresenta una delle meraviglie architettoniche del paese.
L’iniziativa è partita da Jonny Greenwood, che ha una casa nel fermano, scelta come “buen retiro”; letteralmente entusiasta della quiete marchigiana, è capitato che fosse presente durante le due terribili scosse di terremoto del 24 agosto e del 30 ottobre 2016. Da qui, è partita la sua iniziativa di devolvere il ricavato di un concerto alla conservazione ed al restauro delle opere d’arte del maceratese e del fermano danneggiate dal sisma. Per la realizzazione dell’evento e per la corretta destinazione dei fondi è nata l’associazione ArteProArte, coordinata dalla moglie Sharona Katan; non si è perso tempo, e questo magnifico evento è stato reso possibile, raccogliendo fondi per ben 231.000 euro.
La serata inizia, mentre lentamente l’Arena Sferisterio si riempie, con un soffuso tappeto elettronico di suoni che emanano dal palco deserto, appena percepibile, che all’imbrunire, si insinuano in maniera inquietante nella mente di noi ascoltatori, creando una atmosfera di trepida attesa.
Greenwood, per favorire il pluralismo delle opzioni musicali, si è scelto anche il gruppo spalla: “Cubis Quartet”, un quartetto d’archi di grande qualità, formato dai virtuosi Aldo Campagnari, Cristiano Giuseppetti, Vincenzo Starace, Federico Bracalente, con l’aggiunta di Daniele Di Bonaventura al bandoneon. Salgono sul palco, e ci propongono oltre mezz’ora di suoni, tra Schubert e Shostakovich, di indubbio fascino.
Verso le 22, come impalpabili, eteree figure fantasmatiche, si materializzano sul palco i due Radiohead, ed è subito magia. E quello che colpisce è il senso di familiarità che i due trovano subito, in completa empatia con il pubblico. E’ previsto che Il set sia prevalentemente acustico, ma in realtà cinque sei computer, tastiere, campionatori sono sparsi qua e là.
E si vede immediatamente che l’impegno che i due profondono è il massimo: al punto da scegliere, come vedremo, tra i brani eseguiti, alcuni ben poco suonati nei concerti classici della band.
Si comincia con “Daydreaming”, Yorke va fuori tempo, prende una stecca, impreca, subito applaudito dal pubblico, poi il brano si libra nel suo fascino ipnotico, nella sua profondità concettuale, ove il canto sofferto di Yorke, accompagnato da un piano sognante (da questo brano il regista Paul Thomas Anderson, cui Greenwood ha donato molte colonne sonore per i suoi film, in particolare per l’ultimo, “Vizio di Forma”, incentrato sulla cultura alternativa americana e la sua crisi, ha tratto uno splendido video) si riferisce probabilmente alla fine della sua relazione con Rachel Owen, alla sua fuga dal mondo “consumistico”, verso un ritorno all’elemento primigenio della natura. La poetica espressiva dell’artista, è sempre stata incentrata sulla inadeguatezza, gli amori non corrisposti, l’incomunicabilità, la dissociazione dalla realtà, nella ricerca di un rifugio che riporti all’autenticità ed alla riscoperta dei valori spirituali, verso un elemento primordiale.
Armeggiando tra gli strumenti, cambiando continuamente tipo di chitarra, Yorke dice: “Non è facile”, e il pubblico, pienamente in empatia, applaude. Ed ecco la onirica , fantastica “Bloom”, tratta da The King of Limbs, su di un tappeto acustico di chitarra e piano, mentre il fumo bianco che esce dal palco si tramuta in nuvole nere, spettrali. La beatlesiana “Faust Arp” tratta da In Rainbows, appare priva dell’orchestra d’archi che abitualmente Greenwood realizza elettronicamente, ma egualmente efficace e coinvolgente.
“The Numbers”, altro brano da The Moon Shaped Pool, canzone ecologista contro la guerra, è dolce e delicata, in acustico risalta la voce di Thom, mentre “Weird Fishes/Arpeggi”, e “Nude”, entrambe tratte da In Rainbows, sono semplicemente, e come sempre, sublimi. La prima nasce come una elegiaca canzone d’amore, per concludersi con immagini di macabra desolazione, la seconda è una struggente amara constatazione sulla impossibilità di cambiare il mondo, seguendo l’utopia.
“Exit Music (for a film)” da O.K. Computer, una vera rarità nei concerti dal vivo, è scarna, essenziale, coinvolgente nella sua triste, lirica melodia, “I Might Be Wrong”, da Amnesiac, è dolcemente avvolgente, introspettiva, canzone d’amore con un finale da brivido, “Follow me Around”, ancora da O.K. Computer, due chitarre, accompagnate da un essenziale tappeto di loop elettronici, è semplicemente magistrale. “A Wolf at The Door” è lirica, avvolgente, in ambiente acustico perde un po’ il ritmo jazzato che la caratterizza (e non ci rimette). “How to Disappear Completely”, rimane una splendida canzone elettronica, ipnotica, avvolgente, con echi di Penderecki (non a caso Greenwood ha composto un album con lui), con tratti di musica elettronica tedesca anni settanta, uno dei brani più suggestivi di sempre della band; in essa Yorke narra il senso di straniamento e di timore provato a volte nel trovarsi davanti alle sconfinate folle dei concerti; pur ridotta all’essenziale, non perde affatto l’intenso lirismo che la pervade, unitamente ad un senso di pathos profondo.
“Present Tense”, ancora da The Moon Shaped Pool, chitarre e loop elettronici, ancora visioni di un malinconico futuro, semplicemente sublime, ci dà brividi nella schiena, ed anche un brano come “Give up the Ghost”, da The King of Limbs, basato di solito sull’accumulo progressivo di loop sonori, trova in dimensione acustica una insolita fascinazione, in uno splendido incastro di voci.
Addirittura “Cymbal Rush” dall’album solo di Thom Yorke “Eraser”, quasi un inedito nelle apparizioni dal vivo, ci viene proposta in un soffuso incastro di piano e chitarra; la voce in falsetto di Thom la rende dolcemente ipnotica, fortemente suggestiva.
Yorke scherza simpaticamente con un fan che gli chiede a gran voce l’esecuzione di altri brani, poi si immerge in “Like Spinning Plates”, straniante ballata per piano e voce, che celebra l’incomunicabilità, da Amnesiac, ed in una versione da brivido di “All I Need”, da In Rainbows, piano e voce e xilofono. Il brano inizia come una romantica ballata per concludersi con una desolante, introspettiva constatazione di assoluta solitudine.
I due si ritirano, ma richiamati a gran voce, ci offriranno ben altre cinque perle.
“Street Spirit (Fade out)”, antico cavallo di battaglia, da The Bends, è semplicemente strepitosa, “Pyramid Song”, da Amnesiac, vero anthem dell’ensemble, intensa e commovente, visione desolante di distruzione della terra allagata, sprofondata nell’oceano, eppure piena di speranza di sopravvivenza, “Everything in its Right Place” è semplice ed ipnotica, nella sua struttura minimalista, “No Surprises”, da O.K. Computer, dolcemente evocativa, foriera di speranza, per concludere con l’anthem “Karma Police”, ancora da O.K. Computer, che viene proposta in una versione ancora più stralunata, e che nella sua ironia descrive l’alienazione di questa epoca. E’ l’apoteosi, i due ringraziano il pubblico: “Grazie per questa serata”, e come ombre si dileguano tra le volte dello Sferisterio. A noi resta una intensa, indescrivibile emozione, con la consapevolezza di avere assistito ad un concerto ed ad un evento epocale, in uno scenario di stupefacente bellezza, dove la performance del duo Radiohead, e la conseguente prevalenza acustica ci hanno fatto scoprire nuove dimensioni sonore anche nei brani più noti.
Yorke ci appare, ogni volta che abbiamo la fortuna di assistere ad una sua performance, come un misterioso sciamano, un poeta visionario ed allucinato, consapevole del dolore del mondo, pervaso da una sofferente saggezza, da una umana ritrosia, una personalità complessa, che ha ben pochi uguali nella storia del rock. Greenwood è un vero scultore di suoni, un geniale polistrumentista, destinato a scrivere pagine nuove nella sperimentazione, aperto ad ogni forma di contaminazione sonora.
Ogni performance dei Radiohead rappresenta una sublime testimonianza poetica della perdita dei valori, del disincanto e dello straniamento dell’individuo post-moderno: una rock band universale, in realtà forse l’ultima delle grandi rock band, un incrocio stilistico di rock progressivo, psichedelia, elettronica, avanguardia, pop, ora in questa suggestiva versione prevalentemente acustica, protesa verso il futuro, che realizza una sorta di musica classica degli anni duemila, ma che intende difendere il passato ed i valori dell’Umanesimo, considerati in grave pericolo. L’arma di questa difesa è per loro la poesia sonora vista come rappresentazione suggestiva e drammatica del pathos dell’esistenza. Come si evince da una attenta lettura delle liriche che essi compongono, non ci troviamo certamente di fronte ad un ensemble dall’estetica “Dark” che si compiace della sofferenza ed intende trasformarla in elemento artistico: la loro poetica risiede nell’accettazione e nel tentativo di superamento del dolore, nella consapevolezza della tragica finitezza dell’essere umano.

Recensione di Dark Rider

Tracklist

Daydreaming
Bloom
Faust Arp
The Numbers
Weird Fishes/Arpeggi
Nude
Exit Music (For A Film)
I Might Be Wrong
Follow Me Around
A Wolf At The Door
How To Disappear Completely
Present Tense
Give Up The Ghost
Cymbal Rush
Like Spinning Plates
All I Need
Street Spirit (Fade Out)
Pyramid Song
Everything In Its Right Place
No Surprises
Karma Police

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