Dic 102010
 

A Joy Division Celebration From Peter Hook.
RomaEuropa Festival, Brancaleone 27 novembre 2010

★½☆☆☆
Uno dei membri superstiti dei Joy Division,gruppo epocale della New Wave britannica, il fondatore e bassista Peter Hook, ha avuto il grande merito di andare in tournèe per rendere omaggio nel trentennale della morte al poeta maledetto Ian Curtis, anima della band, ripresentando il capolavoro “Unknown Pleasures” con i suoi ‘The Light’, band nella quale è presente anche il figlio. Il progetto è stato portato avanti con molta determinazione, assumendo che nessuno degli altri ex membri del gruppo aveva ritenuto utile celebrare il front-man morto suicida a 23 anni.
Purtroppo però l’impresa si è rivelata ardua, in quanto la performance ospitata a Roma dal Centro Sociale Brancaleone gremito per l’occasione, è stata molto deludente e raramente ha superato una piatta ed incolore rievocazione dei brani del primo periodo dei Joy Division, quando ancora si chiamavano Warsaw, e di Unknown Pleasures, immenso capolavoro rock che è stato oggetto di infinite imitazioni dagli anni Ottanta in poi e che ha dettato lo stile, in parte le tematiche e le sonorità della Dark Wave.
L’attesa dell’evento era grande, sia per i giovani che per i più anziani, che avevano già avuto conoscenza del mito Joy Division, ensemble epocale.
Dopo una mediocre anche se vibrante performance dei Confield ★½☆☆☆, gruppo il cui nome trae origine dall’album degli Autechre ma che in realtà ricalca pedissequamente le sonorità degli Editors aggiungendo un po’ di elettronica, è salito sul palco Peter Hook con il suo nuovo gruppo, dando vita alla sua appassionata performance, che pur se mediocre, intendiamo descrivere con l’occhio rivolto al passato grandioso della leggendaria band New Wave.
Si inizia con la drammatica “No Love Lost”, composta nel primo periodo, quando ancora l’ensemble aveva il nome di Warsaw, il cui testo rievoca le pagine del libro “The House of Dolls” dello scrittore polacco Ka Tzetnik, che descriveva la vita delle donne ebree costrette a divenire oggetto sessuale dei gerarchi nazisti nei campi di concentramento, in apposite baracche denominate “Joy Division”. I riff taglienti della chitarra ricordano l’allucinatoria interpretazione del gruppo originale.
E’ poi la volta di “Leaders of Men”, brano post-punk dallo stile prettamente dark, anch’esso del periodo Warsaw, e degli angosciosi incubi di “Glass” e “Digital”, appiattiti però da un’interpretazione intensa ma assolutamente inadeguata quanto a timbro di voce e sonorità, eccessivamente monocordi.
Ora si viene al periodo di Unknown Pleasures, che viene interamente riproposto: l’album è intriso del drammatico esistenzialismo di Curtis, della sua consapevolezza e rassegnazione per il degrado spirituale dell’umanità, espresse con sonorità magistralmente sepolcrali.
La performance del nuovo ensemble inizia da “Disorder”, che induce a qualche brivido, ma che si dimostra priva del magistrale giro di basso dello stesso Hook (che ora è il frontman) e soprattutto della voce drammatica e baritonale di Ian Curtis, che, anche per la perfetta fusione con l’armonia chitarristica di Bernard Sumner, conferiva al brano che rappresenta forse il vero manifesto dei Joy Division, un’aura tombale e malinconica di grande spessore poetico.
Nella interpretazione attuale esso esprime esclusivamente un generico senso di disagio, unitamente ad una discreta ritmica.
“Day of the Lords” ci ricorda il lento cammino verso la fine, il progressivo ed inesorabile degrado mentale che porterà il grande Musicista prima alla paranoia, poi all’autodistruzione, ma ove risplendevano gli ossessivi giri di chitarra di Sumner, che accompagnavano la sua performance, ora, nella nuova interpretazione, appare un suono abbastanza caotico ed indistinto, anche se non privo di un senso di inquietudine.
Stesso discorso vale per le successive “Candidate”, canto dell’oscurità, e “Insight”, dove Curtis rappresentava il suo dolore cosmico, osservando con indifferenza la morte dei sogni della sua generazione, e ricordava le sensazioni di quando “era giovane”. Nell’interpretazione del nuovo gruppo entrambi i brani risultano drammaticamente potenti, ma assolutamente privi di anima ed afflato lirico.
La splendida “New Dawn Fades”, capolavoro della moderna musica, in cui egli, descrivendo una nuova alba che sorge priva di speranza, sembrava voler interpretare in anticipo, con il suo canto sommesso, una lugubre elegia presagio della sua fine, viene riproposta con troppa energia strumentale e con un timbro di voce di Hook ormai esausto.
Convenzionale appare anche l’esecuzione di “She’s Lost Control”, in cui viene descritta la deriva epilettica di una donna, e dove forse il Musicista vedeva la drammatica rappresentazione della sua malattia.
“Shadowplay” (nella visione allucinata un barlume di umana speranza sembra possibile), “Wilderness” (la fine dell’illusione religiosa e della speranza nell’umanità) ed “Interzone” (ispirata alle allucinanti visioni di William Burroughs), che nella versione originale dell’album tendevano a recuperare gli stilemi dl Rock classico, pur se con una visione tematica sempre oscura e malinconica, nell’interpretazione attuale di Hook e della sua Band appaiono brani pressoché indistinti, e quest’impressione viene confermata dalla sempre maggior carenza di vocalità del performer, che sembra ormai delegare agli strumenti del suo gruppo la maggior parte delle possibilità espressive.
Un piccolo colpo d’ala avviene con “I Remember Nothing” che ci riporta in un clima angosciante e claustrofobico, ma che risulta comunque diverso dagli altri brani, senza dubbio riconoscibile.
Il concerto si conclude, ma a gran voce la Band viene richiamata sul palco. Si ritorna, quindi, al periodo Warsaw, con l’omonimo brano, ben realizzato in perfetto stile Punk e con la drammatica “Failures”, veloce e coinvolgente. “Transmission”, ove la radio della notte veniva descritta come strumento di conoscenza esoterica, appare una trascrizione fredda e scolastica del brano originale, senza la voce portentosa di Ian Curtis.
La conclusione, a gran richiesta, è affidata a “Love Will Tear us Apart”, che, da canzone eterea e struggente che rappresenta la vetta del Neoromanticismo di Curtis, ove si narra di come la routine possa uccidere l’amore spegnendo la passione, viene degradata a gigantesco e caotico karaoke.
Stavolta è davvero finita, la gente esce dalla sala, i pareri sul concerto sono molto discordi. A noi è sembrata un’operazione generosa, ma assolutamente inadeguata, ma se l’evento dovesse spingere qualche giovane ad accostarsi all’Arte di Ian Curtis e dei Joy Division, non sarà stata affatto inutile.
Splendida la riproposizione grafica su schermi laterali al palco della mitica copertina dell’album, realizzata nel 1978 da Peter Faville, e divenuta un’icona tra le più famose della storia del Rock.
Resta però da dire a Peter Hook, che ha dichiarato di essersi messo nei panni di Ian Curtis, che il Poeta è unico, irripetibile, e così resterà nella mente e nel cuore di chi ha imparato ad amare le sue sconvolgenti, immortali liriche, che esprimono mirabilmente la sua visionarietà, le sue poetiche allucinazioni, la sua devastante sofferenza interiore.

Scaletta:

No Love Lost
Leaders of Men
Glass
Digital
Disorder
Day of the Lords
Candidate
Insight
New Dawn Fades
She’s Lost Control
Shadowplay
Wilderness
Interzone
I Remember Nothing
Warsaw
Failures
Transmission
Love Will Tear us Apart

Recensione di Dark Rider
Foto di Magister

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