Set 032012
 

(Megasound, 2012)

★★★★★

Fra le innumerevoli band che affollano l’underground romano i Nohaybandatrio sono senza alcun dubbio fra le più valide ed originali, forti di una formula di indubbia novità, di idee armoniche e melodiche di qualità sopraffina e quantità invidiabile, di un interplay e di una tecnica strumentale di primissimo ordine. Nascono nel 2004 dalla mente sempre prolifica di Fabio “Reeks” Recchia, figura di spicco e assolutamente poliedrica della scena romana, sempre alle prese con musica complessa, senza compromessi e del tutto fuori dagli schemi, e che nei suoi innumerevoli progetti si divide tra grind pazzo ma intelligente (Inferno sci-fi grind’n’roll prima, Germanotta Youth poi), IDM e elettronica dallo stile personale con il suo progetto solista o in collaborazione con il videoartist Byruzz o nel duo Fire At Work, i Pharm, una specie di jam band all’incrocio tra rock, free jazz, noise e colonne sonore, e numerose collaborazioni di prestigio (su tutte B For Bang, un interessante progetto di riarrangiamento di brani dei Beatles con la pianista Katia Labeque, il batterista Marque Gilmore e Massimo Pupillo degli Zu, fra gli altri). La sua idea alle fondamenta del progetto Nohaybandatrio, in cui Reeks compone le ossature e i temi di tutti i brani, è quella di suonare contemporaneamente chitarra e basso, tenendoli sdraiati su dei supporti per tastiere e utilizzando la tecnica del tapping: questo inusuale approccio, oltre ad avere un indubbio impatto scenico, permette di esplorare nuove sonorità dei due strumenti, nonché di enfatizzarne l’aspetto percussivo e ritmico esaltando l’interazione con la batteria. Completano la formazione il batterista Emanuele Tomasi, che ha suonato nella band dell’ex bassista dei Fugazi Joe Lally e nel trio del chitarrista Antonio Jasevoli, e il sassofonista Marcello Allulli, che con il trio che porta il suo nome si sta ritagliando uno spazio importante nel mondo del jazz italiano. Così come Reeks suona insieme chitarra e basso, anche Tomasi e Allulli svolgono un doppio ruolo nel suono del gruppo, il primo aggiungendo al suo drumset anche alcune percussioni e ammennicoli vari, il secondo dividendosi fra il sax, spesso filtrato o distorto dagli effetti, e i campionamenti elettronici, e permettono al trio di espandere la propria tavolozza sonora fino a suonare come un sestetto.

La musica dei Nohaybandatrio, lungi dal limitarsi al pur straordinario show di tre musicisti che suonano come se fossero sei, è un originale e ambizioso mix di jazz, rock, hardcore, noise, math, progressive, funk e quant’altro venga loro in mente sul momento, con un amore dichiarato per l’improvvisazione, una passione per le ritmiche intricate e cariche di groove, un gusto raffinato per il tema melodico, sempre cantabile ma mai banale, e per ricercate ed imprevedibili progressioni di accordi. A volte sono stati inseriti nel filone del cosiddetto jazzcore, che a Roma ha il suo epicentro grazie a importanti rappresentanti come Zu (almeno fino a prima di Carboniferous), Neo, Eskimo Trio o Thrangh, ma questa definizione decisamente non basta a racchiudere le tantissime sfaccettature della loro musica.

La macrostruttura di base dei brani è grossomodo sempre la stessa ed è di derivazione puramente jazz: ad un primo sviluppo dei temi segue una parte improvvisata suonata più piano e costruita un po’ per volta, che in crescendo porta al finale in cui vengono ripresi i temi iniziali. Dietro questa formula solo apparentemente monotona si aprono infiniti mondi melodici e ritmici che rendono l’ascolto dell’album avvincente e mai ripetitivo.

L’album, dunque: questo disco eponimo, uscito per l’etichetta italiana Megasound, è il secondo pubblicato dal trio, e segue il già ottimo esordio di “Tsuzuku”, uscito nel 2007 per Zone di Musica. “Tsuzuku” raccoglie le primissime composizioni del gruppo e ne mostrava già in alcuni brani davvero notevoli il grande talento e le potenzialità. Ma l’immediatezza di alcune delle sue dieci tracce dimostrava anche che la ricerca musicale dei Nohaybandatrio, nonché l’esplorazione tecnica di Reeks sui suoi basso e chitarra preparati, erano solo agli inizi. E questo nuovo album, uscito ben cinque anni dopo e registrato come “Tsuzuku” completamente in presa diretta, sta a dimostrarlo: suoni rifiniti e ingrossati, composizioni più elaborate e asciutte, partiture ben più complicate di basso e chitarra eseguite con precisione chirurgica, mai un calo di tensione o un passaggio sottotono. La ciliegina sulla torta è la presenza di alcuni ospiti illustri che impreziosiscono ulteriormente il valore di alcuni brani.

Il disco si apre con un breve “Prelude” per esplodere immediatamente nel riff sbilenco di “Harpya”, che mostra subito l’impressionante potenza e la compattezza ritmica con cui si muovono basso, chitarra e batteria, e su cui si staglia il bellissimo tema suonato dal sax. “Lemmings!” lascia vedere un lato più esplicitamente math, essendo costruito su incastri ritmici complicatissimi e riff dal sapore robotico, intervallati da momenti più melodici, mentre nel finale sax e batteria si mettono in bella mostra lanciandosi in assoli frenetici e caotici. “Led Zep”, che nel titolo rende omaggio a un defunto ma molto amato club di Trastevere, è invece sul versante prog, e vede la chitarra e il sax rincorrersi scambiandosi continuamente temi e accompagnamento, poi raggiungersi per suonare all’unisono, e poi riprendere l’inseguimento durante il quale fa capolino tra uno stop e un go persino un campionamento dell’inconfondibile Robert Plant di “Whole Lotta Love”.

Dopo tanto correre è necessario riposarsi e “Ballad” mantiene fede ai propositi del proprio titolo: una breve introduzione ora distesa, ora zoppicante, lascia spazio ad atmosfere dilatate e rasserenanti, che il sax colora con suoni che sembrano provenire dall’oceano profondo, prima di lasciarsi andare ad un assolo bellissimo, dai toni romantici e di grande raffinatezza melodica. Ma si riparte subito fortissimo con “HC”, in cui accanto al sax di Marcello Allulli viene ospitato quello di Francesco Bearzatti, che contribuisce ad espandere la massa di suoni e rumori che costellano l’impetuoso viaggio psichedelico costruito dalla sezione ritmica, con alcune delle migliori progressioni armoniche di tutto il disco. La successiva “Tonino Hardcore, Tonino Rock&Roll”, affianca un riff potentissimo a un andamento saltellante e divertito e cita per un attimo la melodia di “Bella Ciao” nel mezzo della lunghissima sezione improvvisata, ricca di splendidi scambi fra il sax e la tromba dell’ospite Giovanni Falzone, prima del trip finale che inizia quasi ballabile, accelera e frena senza preavviso, si accartoccia sempre più frenetico fino terminare la sua corsa brusco ma risoluto. In “Mr Bedeker” l’ospite è Massimo Pupillo dei già citati Zu (e che ha collaborato con Reeks anche nei Germanotta Youth), mentre il sax salta un giro, lasciando spazio a ritmi spezzati e nervosi e ad accordi dissonanti disturbati da suoni sintetici e interventi di puro rumore elettronico, verso l’esplosione finale in cui il riff principale viene rallentato fino all’esasperazione e al caos. Ora però le nubi che rovesciano sull’ascoltatore questo diluvio sonoro si diradano, lasciando spazio al finale del disco, la splendida “Banchetto di Nozze”: è un brano placido e funereo, tetro e solenne, costruito su un semplice arpeggio di chitarra e un bellissimo tema del sax, e per il quale Enrico Gabrielli (dei Calibro 35 ed ex-Afterhours), ospite al flauto traverso e al clarinetto basso, crea un’ambientazione eterea, immaginifica, sognante, scegliendo di non fare il solista, ma di stare un passo indietro e mettersi completamente al servizio del brano, enfatizzandone magnificamente le dinamiche.

Oltre a mostrare la freschezza e la vitalità dell’underground italiano e romano, che nell’incalcolabile numero di band che lo popolano mostra alcuni picchi di grande qualità e originalità, questo secondo disco dei Nohaybandatrio è un importantissimo passo per la band perché, forse più del primo album “Tsuzuku”, ne stabilisce definitivamente le coordinate sonore e compositive. Ma è soprattutto la forza dei brani, l’assoluta libertà mentale con cui sono composti e suonati e la superlativa interazione fra i tre musicisti a far sperare che un album così importante possa catturare sempre di più l’attenzione di chi ama e vive la musica.

Recensione di Andrea Carletti

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