Mag 092016
 

Giobbe: About Places (Imake Records 2015)

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Quando un progetto di un certo spessore giunge al capolinea, speri sempre che da quel pezzo di vita possano uscire altri progetti e che la voglia di fare un certo tipo di musica, sentita e senza compromessi possa cosi duplicarsi o anche triplicarsi e cosi via.
Cosi è successo dalla fine della corsa dei “The disappearing one” band che si era ritagliata un suo percorso molto dignitoso e di qualità con una manciata di album completamente autoprodotti usando il fondo cassa dei concerti.
Fabio Giobbe ne era il cantante e compositore. Uscito su elegante cd digipack e anche vinile per la Imake Records “About Places” è il viaggio interiore e fisico di Giobbe;
Un autobiografia in musica dove ritrovare tutto il suo passato, presente e anche futuro.Perchè in fondo non puoi sradicare da dove vieni e da li sempre si riparte.
E questo lavoro sin dalla prima “Saint Stephen’s Green” (famoso parco centrale Dublinese) riparte dai lavori della precedente band mostrando un elegante songwriting.
Mentre i brani scorrono con tutte le loro suggestioni geografiche e non solo ne parliamo direttamente con lui per farci raccontare questo nuovo inizio proprio in concomitanza con le date di presentazione del lavoro posticipate per una fastidiosa afonia che ha portato Giobbe a fermarsi a recuperare le sue forze.

Ciao Fabio e benvenuto su Slowcult..chi ti conosce sa bene con quanta veemenza ti batti a favore della canzone originale. Una battaglia che accomuna tutti noi che vorrebbero molta piu attenzione per le vere creazioni e non le tribute band che scadono spesso nel ridicolo per costumi atteggiamenti ecc. A che punto ci troviamo oggi? Cosa percepisci in questo momento che stai tornando dal vivo con le cazoni di “About Places” ?

F.G:Ciao SLowcult e Grazie! Quella battaglia ci accomuna da anni, e negli anni ho anche imparato a condurla in maniera diversa. Piano piano mi interessa sempre meno denunciare una situazione che mi pare peggiorare. L’unico modo che ho per contrastarla è continuare a non cedere in alcun modo a certe lusinghe. Cosa che invece vedo fare da parte di alcuni dell’Underground nostrano. Sono scelte, per carità. Continuo, in ogni modo, a credere che una certa proposta “culturale” che mina la possibilità di espressione artistica originale resti una delle cause per cui c’è sempre meno attenzione per gruppi emergenti che propongono roba propria. A che punto siamo oggi? Beh…per un problema alle corde vocali non ho potuto suonare per circa un anno, e solo adesso sto piano piano riprendendo con piccoli concerti in formazione ridotta. Dunque, ho avuto ancora più tempo per andare a vedere ancora più concerti dal vivo, se possibile. E quello che vedo ultimamente, ancora più che in passato, è una voglia di “evento” e non una reale voglia diffusa di musica dal vivo. Se un concerto è “evento” allora vedrai il caos, anche se poi una grande parte del pubblico starà fuori al club a chiacchierare. O anche dentro al club spesso. Se invece vai a vedere concerti di gruppi che non sono esaltati dai media e dal passa parola modaiolo, allora ti ritrovi concerti con 20 spettatori, quando va bene. Questo è. Le soluzioni sarebbero tante, ma la maggior parte non dipendono da chi fa musica in un certo modo.

Come è cambiata quindi la tua scrittura da un esperienza di band a un esperienza appunto intima. Dove ti sei diretto per “About Places”? cosa è cambiato e cosa è rimasto?

12662578_1134469193254890_2194151042393303328_nF.G:Non nego che mi piacerebbe, e non poco, poter suonare in sale concerto grandi, attrezzate, con un pubblico che viene per ascoltare la mia musica. Sarei un ipocrita se affermassi il contrario. Ma non è il mio caso. I club in cui suono generalmente sono di piccole dimensioni. I posti migliori sono, di solito, quelli che non si configurano propriamente come dei locali veri e propri: Associazioni, Laboratori, Spazi condivisi…di solito sono i posti migliori in cui suonare, almeno per quanto mi riguarda. Suonare in un pub alla moda, molto frequentato, ma da persone che non hanno interesse nella tua musica (e a volte non lo hanno nella musica, punto) non è il massimo. E quando capita è solitamente frustrante. Dopo anni, chiaramente, ci si fa sempre meno caso. Ma si evita, se possibile. E così siamo tutti più contenti. Il discorso sarebbe lunghissimo, e la premesse è sempre la stessa: a ciascuno il suo, senza pretese di chissà quale superiorità o altri sentimenti ed atteggiamenti che non mi appartengono. Resta il rammarico, restano gli interrogativi. Porsi domande e guardarsi intorno è lecito ed ancora concesso a tutti. Dunque lo faccio.
La scrittura da solista non è cambiata molto per me. Continuo a scrivere canzoni alla chitarra acustica, continuo a scrivere testi che parlano di quello che vedo intorno e che vivo. Niente di nuovo sotto il sole, insomma. Continuo anche a lasciare spazio ad altri musicisti, perché il disco è comunque suonato da una band. Sono amici storici, perché di loro mi fido e con loro mi piace fare musica. Oltre alle mie acustiche ed elettriche, hanno suonato e contribuito agli arrangiamenti Dino Cuccaro alla batteria (This is not a Brothel ed ex Sleeping Beauty come me), Gianluca Plomitallo “The Huge” ai piani, Francesco Tedesco alle elettriche (lui è anche fonico, produttore e fondatore della I Make Records, l’etichetta con cui ho coprodotto il disco), Marco Normando al basso (ex The Disappearing One, adesso coi Malmö) e con le collaborazioni di Gianluca D’Alessio al violoncello e Ferdinando Guidelli alla pedal steel guitar.
Dunque è rimasto lo spirito da band, sebbene sia io l’autore della musica e dei testi.

Questo album è un album di istantanee, di viaggi fisici e interiori. Cosa vorresti arrivasse di questo tuo andare…presumo che anche come autore tu non ti senta fisso in un luogo…un po come un busker…

Mi piacerebbe arrivasse tutto come una chiacchierata con una persona che conosci da tempo. Mi piacerebbe desse l’impressione di vicinanza alla persona ed alle storie che ci sta raccontando, anche se magari in fondo le conoscevi già ma non ti stufa riascoltarle. Mi piacerebbe che attraverso i testi si percepisse il luogo di cui parlano, se ne sentissero quasi i rumori e si visualizzassero le atmosfere e le persone che le abitano.
Inoltre, sarebbe un’enorme soddisfazione se questo disco riuscisse a trasudare tutto il carico di sentimenti, passioni, lavoro ed ore di dedizione di cui è il frutto.
Come autore mi piace “fare”. Ho solo voglia di fare dischi, scrivere canzoni e provare a farlo meglio di quanto realizzato nei dischi precedenti. Se questo mi porterà in altri luoghi ed in altri modi di espressione, non lo so. Penso che certe strade si prendano in modo inconsapevole ma naturale, e questo mi piace fare, cercando di percorrere sempre vie che siano per me spontanee e vere. Un modo, insomma, per vedere tanti “luoghi” sentendosi sempre a casa.

Grazie Fabio, allora see ya down the road…

F.G. Sicuro! Grazie Slowcult!

Intervista di Fabrizio Fontanelli
Foto di Imma Di Lillo

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