Ago 132013
 

Come il cocomero, come il pollo coi peperoni, come la grigliata dopo l’escursione in alta quota, ormai anche la nostra rubrica è entrata a pieno diritto nelle tradizioni ferragostane. Per chi ancora non la conoscesse, si tratta di una breve carrellata di album selezionati in questo periodo dell’anno dalla redazione di slowcult e consigliati per un ascolto più attento e concentrato, frutto del maggior tempo a disposizione consentito da questi giorni di riposo.
A breve seguirà una seconda puntata. Buon ascolto e buon ferragosto a tutti!
La redazione di Slowcult

★★★★★

Il signor Giù consiglia:

Miles Davis – Bitches Brew (Columbia Records 1970)
Questo album ha rappresentato un punto di svolta per il jazz. Non è certo di facile ascolto, anzi le composizioni lunghe e complesse senza una melodia riconoscibile lo rendono ostico. Emblema del cambiamento nella musica di Miles Davis, è un lavoro vitale che ha saputo creare una musica di avanguardia guardando al mondo del rock .
Davis realizza un lavoro basato su una struttura di libera improvvisazione, l’utilizzo di strumenti elettrici ed effetti sonori in post produzione.
Bitches Brew è in assoluto un lavoro innovativo che ha influenzato il panorama musicale dell’epoca.

 

 

Christian Dalenz consiglia:

Pink Floyd – The Wall (EMI, 1979)

Se quest’estate siete in vena di profonde riflessioni su voi stessi, consiglierei un attento ascolto di questo famosissimo album, che l’ex bassista dei Pink Floyd, Roger Waters, sta portando di nuovo in tour mondiale proprio in questo periodo. Grande musica rock, ma non solo: non tutti conoscono nel dettaglio i temi che Waters, autore di tutti i pezzi di questo quadruplo vinile e/o doppio cd (con la collaborazione del chitarrista della band, David Gilmour, nella composizione di alcuni brani), vi ha in esso affrontato. E’ la storia (ispirata sia dalle vicende umane di Roger Waters che dalla malattia mentale dell’ex compagno di avventure musicali Syd Barrett) dell’approfondita autopsicoanalisi attraverso la quale decide di passare Pink, rockstar (fittizia) consumata , la quale finisce per toccare vicissitudini topiche, perché caratterizzano in fondo la vita di molti: un padre assente, una madre troppo protettiva, un insegnante che frustra qualunque voglia di libertà di spirito, una moglie con cui è diventata troppo difficile la mutua comprensione. Un viaggio all’interno delle sue psicosi che termina con un’inaspettata (ma dubbia…) liberazione. Se deciderete di affrontare la sfida della piena comprensione di questo disco, non potrà che venirne fuori un nuovo modo di affrontare le vostre vite, e forse meno voglia di compatirsi, se si riesce a capire che le proprie angosce non sono in fondo troppo uniche…
” Tell me is something eluding you, sunshine?
Is this not what you expected to see?
If you want to find out what’s behind these cold eyes
You’ll just have to claw your way through this disguise” dalla canzone In The Flesh
” If you should go skating on the thin ice of modern life… don’t be surprised, when a crack in the ice
appears under your feet “
dalla canzone The Thin Ice

Andrea Carletti consiglia:

CCCP Fedeli Alla Linea – 1964-1985 – Affinità-Divergenze fra il Compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età (1986, Attack Punk Records)


“Una realtà tutto sommato italiana, emiliana per la precisione, pur divincolantesi tra pregiati profumi d’oriente e sano sudore di muratore reggiano”. Così i CCCP descrivono se stessi nelle note di questo loro primo album, pubblicato nel 1986 dalla Attack Punk Records di Bologna. Un disco con un’estetica del genere non può che sembrare vecchio, di un’altra epoca. E invece anche ad ascoltarlo oggi si rivela essere uno dei dischi rock (“punk filosovietico / musica melodica emiliana”, per essere precisi) più freschi, originali e di respiro internazionale mai prodotti in Italia.
L’intuizione fondamentale di Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti è proprio quella di far scontrare il provincialismo estremo della tradizione dell’Emilia comunista, quella del Partito, ma pure del liscio e delle balere, con il punk, la new wave e la musica industriale incontrata a Berlino, e mescolarli con un gusto per la canzone spiccatamente italiano. L’uso della drum machine, le chitarre rugginose e taglienti di Zamboni e il basso incolore di Umberto Negri danno alla musica un sapore allucinato e nevrotico, esaltato da liriche che ondeggiano tra una surreale ironia, un acuto sarcasmo e una ipnotica e disturbata ossessione paranoica, scandite nell’inconfondibile salmodiare di Giovanni Lindo Ferretti.
La scaletta del disco si muove fra gli assalti punk di “CCCP” e della schizofrenica “Valium Tavor Serenase” (spezzata nel mezzo dal liscio di “Romagna mia”, deformata in “Emilia mia”), il lamento disilluso di “Trafitto”, l’apatia di “Noia”, la condanna senza appello “produci, consuma, crepa!” urlata in “Morire”, la cupezza della fisarmonica di “Allarme”, tutti brani che strappano agli anni ’80 l’ipocrita maschera dello yuppismo, dell’edonismo e del consumismo spensierato. Qui predominano l’alienazione, gli psicofarmaci, il vuoto, e i CCCP lo raccontano in maniera fredda e disincantata, a volte ironica e stralunata, di certo convincente. E rendono tutto questo ancora più esplicito negli inni new wave “Curami” e “Io sto bene”. La prima suona come una disperata richiesta di aiuto nascosta dalla melodia dello xilofono, prima di impazzire e ripetere ossessivamente “sono una terapia”, mentre nella seconda Ferretti declama le proprie insicurezze su un andamento che richiama il krautrock, i cui vividi colori sono però rimpiazzati dal grigiore: “io sto bene, io sto male, io non so dove stare. Non studio, non lavoro, non guardo la tivù, non vado al cinema, non faccio sport”. Completano l’album la meravigliosa canzonetta quasi ballabile “Mi ami?”, che racconta di un amore squallido e privo di passione, prima di esplodere in una nuova corsa punk, e il brano forse più famoso della band, la lunga e oppressiva cavalcata di “Emilia Paranoica”, quasi otto minuti di angosciante e allucinata monotonia scandita dal mantra “aspetto un’emozione sempre più indefinibile”, e spezzata solo per un attimo da un’improvvisa accelerazione, per poi ripiombare nel disagio più profondo.
I CCCP non raggiungeranno più queste vette di consistenza compositiva e forza concettuale, ma Zamboni e Ferretti produrranno album di qualità altrettanto sopraffina, sebbene di genere completamente diverso, solo nel decennio successivo dopo la nascita dei CSI dalle ceneri della band originaria. “Affinità-Divergenze” è un caso unico nel panorama del punk e della new wave mondiale, e permette all’Italia di ritagliarsi uno spazio piccolo ma significativo nella storia di questo genere. Mai come in questo caso “è una questione di qualità”.

Fabrizio Fontanelli consiglia:

The Beatles – Abbey Road (Apple records – EMI 1969)
Perchè alla fine, sommersi da tutti i nostri input, da tutti i nostri dischi, vinili e quant altro accumulati, si torna sempre a casa, ai Beatles, ho scelto Abbey Road perchè pochi giorni fa la foto sulle strisce pedonali ha compiuto gli stessi miei anni. Dunque un motivo in più per fare di questo album (che bello chiamare le cose con il loro nome) il mio disco per l’estate 2013. Certo complice è stato il mio viaggio a Liverpool, la mia visita alle case private di Paul e John, ma questo disco è una summa di poesia,sensualità, follia creativa, ha al suo interno dei picchi compositivi da parte di George (“Something” e “Here comes the sun” due brani
immortali) e Ringo (la deliziosa Octopus’s Garden). Il 26 settembre saranno 44 anni che “Abbey Road” circola tra di noi. In questi giorni di 44 anni fa la band stava registrando negli Studi 1,2 e 3 di Abbey Road appunto. Disco per l’estate e disco per sempre.

 

 

Federico Forleo consiglia:

Queens of the Stone Age – Rated R (Interscope 2000)

Tra i graditissimi ritorni che hanno caratterizzato questa prima metà del 2013 (da David Bowie ai Boards of Canada, fino a Nick Cave e ai Daft Punk) …Like Clockwork dei Queens of the Stone Age è riuscito a ritagliarsi indubbiamente un ruolo di fondamentale importanza, riportando la band statunitense, reduce dal fiacco Era Vulgaris, a livelli altissimi, all’insegna di una riuscitissima ricerca della forma-canzone apparentemente semplice e immediata, ma che in realtà rivela nella maggior parte degli episodi un’accurato e attento lavoro sui piccoli dettagli e sull’utilizzo di complesse soluzioni armoniche, degne dei migliori songwriter del passato. D’altronde già precedentemente Josh Homme ha dato prova del suo incredibile talento compositivo, in particolar modo con quel Songs for the Deafche a tutt’oggi è unanimanente inserito all’interno dei dieci dischi più importanti del decennio da poco trascorso.
Ma forse, ad anni di distanza, l’album Rated R, con la sua durata più contenuta (appena 42 minuti), appare scorrere con maggiore efficacia, presentando un universo sonoro assai più ricco e variegato: partendo da un vero e proprio inno quale “Feel Good Hit of the Summer”, costruito su un unico riff mononota e sulla ripetizione ossessiva dello straordinario verso ‘Nicotine, Valium, Vicodin, Marijuana, Ecstasy, Alcohol, COCAINE!’, le Regine dell’età della pietra alternano perfetti singoli radiofonici come “The Lost Art Of Keeping A Secret” e “Monsters in the Parasol”, a momenti più rilassati quali “Autopilot” e “In The Fade”, permettendo al folle bassista Nick Olivieri di urlare tutta la sua divertita rabbia in “Quick And To The Pointless” e “Tension Head” e compiendo infine elaborati esperimenti sulla struttura dei brani nei due capolavori dell’album “Better Living Through Chemistry” e nella conclusiva “I Think I Lost My Headache” (che i Radiohead di Kid A, di quattro mesi successivo, si siano inspirati a questo brano per l’utilizzo dei fiati in The National Anthem?).
Anche senza la presenza di Dave Grohl insomma, i Queens of the Stone Age avevano già dato una superlativa prova della loro fondamentale importanza all’interno della scena musicale degli anni 2000: non è poco se si pensa che inizialmente il gruppo veniva semplicemente considerato come un misero proseguimento della stoner band di culto Kyuss: un proseguimento che in realtà già nell’arco di due album (non dimentichiamo lo splendido debutto ononimo) si è rivelato superare di gran lunga il progetto precedente, catapultando a buon diritto l’immenso Josh Homme nell’olimpo delle icone del (vero) rock attuale. C-c-c-c-c-cocaine!!!

…continua….

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