Ago 102017
 

Come da parecchi anni a questa parte, ci piace accompagnare la pausa ferragostana con una selezione di album ed artisti che a nostro parere meritano un ascolto più approfondito ed attento, consentito dal maggior tempo a disposizione in questi giorni di riposo.

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La redazione di Slowcult augura a tutti buon Ferragosto!!!

 

Dark Rider consiglia:

Slowdive, Slowdive

Dead Oceans, 2017

discoestate marcelloAll’inizio degli anni novanta nasceva una band inglese che, totalmente in sordina, al punto che pochi si accorsero ai tempi del suo valore, avrebbe contribuito a fondare, nell’ambito dell’alternative rock, un nuovo genere: lo “Shoegaze”, letteralmente, fissare la punta delle scarpe: esso era caratterizzato da un sound sognante, ottenuto con la voce che veniva utilizzata come strumento, e con chitarre, distorsori e feedback. In questa tendenza precursori furono Jesus and Mary Chain e My Bloody Valentine, per il lato maggiormente sperimentale, e per certi versi, i magnifici Cocteau Twins, autori di un dream pop sognante ed immaginifico, melodicamente creativo.
Ma gli Slowdive portarono questa tendenza a pieno compimento, diventando una band, il cui culto doveva rivelarsi sempre crescente. Per vent’anni molti hanno tentato di imitarli, ma, nonostante il successo postumo, soprattutto ottenuto in sede critica, essi non intendevano tornare sulle scene. Finalmente, dopo essersi ritrovati in una serie di concerti, nel 2014, si sono decisi a registrare un nuovo album. E la magia e l’incanto già verificatisi vent’anni prima, si sono puntualmente ripetuti.
Ciascun brano del nuovo album è evocativo e meraviglioso. Slomo, opening track, parte quasi in sordina, mentre il suono delle chitarre comincia ad elevarsi, mescolandosi a voci evocative, totalmente eteree, impalpabili, che via via rendono il brano solenne ed indimenticabile. Star Roving è una splendida canzone di sognante psichedelia, con chitarre scintillanti, che ricordano certo “space rock”; la voce di Rachel Goswell è in questo brano certamente debitrice di Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins.
Don’t know why, invece, parte in maniera inquieta, per divenire romantica e delicata, con tratti di arpeggi chitarristici tipicamente “dream pop”, per poi risalire di tensione, mentre Sugar for the pill è una ballata tenue ed evocativa, caratteristica di un pop onirico di altissima qualità e di grande suggestione.
Everyone Knows  parte da un incrocio di melodie tipicamente indie pop per approdare in un vortice shoegaze che lascia senza respiro, mentre No longer making time è una specie di inno fascinoso, esuberante, dove la costruzione melodica è malinconica e coinvolgente, e si contrappone ad un ritornello quasi assordante. Go get it è invece forse un po’ umbratile, avvitata su sé stessa, ma sempre gradevole, il brano certamente più sperimentale dell’album, caratterizzato da vibranti sintetizzatori. Falling Ashes chiude l’album con un lungo e minimale incrocio di pianoforte ed elettronica, che ci induce forse a pensare agli ultimi Radiohead.
Shoegaze sognante, etereo, ipnotico, di tonalità crepuscolari, che evoca immagini cinematografiche e, nel contempo, viaggi e percorsi interiori. Il suono, anche se malinconico e dolente, conferisce alla band una maestosa e avvolgente luminosità, come una splendente gemma preziosa che si stagli su di uno sfondo buio.
Un ritorno grandioso, anche se, bisogna dirlo, per nulla innovativo, nella speranza che, anche grazie ad una efficace campagna su internet, l’ensemble riceva gli onori a suo tempo mancati, e vengano riscoperte anche dal pubblico le splendide realizzazioni musicali di un misconosciuto, glorioso passato.

Fabrizio Forno consiglia:

Eurythmics, Be Yourself Tonight

Rca records, 1985

EurythmicsA causa di un imprevisto periodo di convalescenza, ho avuto modo di pensare con inconsueta calma a quale album scegliere per questa tradizionale rubrica ferragostana, arrivando addirittura ad istituire una competizione casalinga, con tanto di scontri ad eliminazione diretta e finalissima!

Dopo questa accurata selezione, vincitore a man bassa è stato poi questo disco del duo Annie Lennox/Dave Stewart, a mio parere apice della carriera degli Eurythmics e loro capolavoro.

Il Synth-pop degli album precedenti (soprattutto di Sweet Dreams e Touch, che ne avevano decretato il successo planetario) resta presente, ma integrato dalle potenti schitarrate di Dave Stewart e da una corposa presenza di fiati r’n’b, diventando un power-pop rock irrobustito da una forte connotazione soul, suggellata dalla prestigiosa presenza di Sua Maestà Aretha Franklin nel celebre duetto Sisters Are Doin’ It for Themselves, uno dei singoli di maggior successo della raccolta.

L’abbandono del look androgino di Annie Lennox a favore di una femminilità ora aggressiva (nel video del brano d’apertura  Would I Lie To You?) ora angelica, nel successivo There Must Be an Angel, sembra essere il vero turning point dell’album. Il pregevole songwriting da sempre marchio di fabbrica del due, in passato molto trattenuto e ‘disciplinato’, viene lasciato a briglia sciolta e liberato da lacci e lacciuoli che avevano caratterizzato la precedente produzione, più ‘mascolina’ e cerebrale, seppur accattivante e fruibilissima.

Non c’è un brano nella lista che non sia un gioiellino pop, ma oltre ai già citati hits (con una segnalazione supplementare per il meraviglioso assolo di armonica di Stevie Wonder in There Must Be an Angel)  mi preme segnalare la magnificenza di Adrian, suggestiva ballad impreziosita dalle armonizzazioni vocali di un certo Elvis Costello.

Una manciata di canzoni con la C maiuscola, sanguigne, emozionanti, divertenti e profonde seppur fondamentalmente pop nel senso più alto e nobile del termine, di certo uno degli album più significativi dei tanto bistrattati anni ottanta, di cui rappresentano di certo il lato più smagliante, sincero, creativo e per questo meno datato, ma cristallino e inossidabile per temi, sonorità ed arrangiamenti.

Fabrizio Fontanelli consiglia:

Blindur, Blindur

Tempesta dischi, 2017

fontanelli discoNel desolante panorama della musica nostrana ogni tanto arriva un raggio di luce. Musica suonata, nessuna concessione a barbe o risse online disgustose, nessuna provocazione, ma solo storie da raccontare, la vita vissuta, le sue gioie e il senso del tempo che passa. Una rivoluzione di questi tempi oserei dire. Blindur, campani d’estrazione, ma viaggianti nel mondo, tra Islanda e Irlanda, protagonisti di questo 2017 con tantissime date e partecipazioni a festival importanti. Hanno diviso il palco con Niccolò Fabi, Cristina Donà (che ha speso parole importanti su di loro). Dal vivo sono travolgenti, ci si lascia incantare dalla loro semplicità e potenza espressiva. Lo sa bene Damien Rice che ha avuto proprio Massimiliano Blindur De Vita al suo fianco per un indimenticabile concerto napoletano. Da cercare, scovare e amare. Perché finalmente possiamo parlare di musica e non di altro. W Blindur!

Andrea Carletti consiglia:

The Heliocentrics – A World Of Masks

Soundway, 2017

Andrea discoestate17Uscito a fine maggio “A World Of Masks” è il nuovo album degli Heliocentrics, meraviglioso collettivo di base a Londra, guidato dal batterista e produttore Malcolm Catto. Insieme alla colonna sonora del documentario “The Sunshine Makers” (pubblicata solo un mese dopo) è il più recente capitolo di una discografia inaugurata solo dieci anni fa, ma già incredibilmente corposa e variegata oltre che di livello altissimo, divisa tra album in proprio (“A World Of Masks” è il quarto), colonne sonore e collaborazioni di assoluto valore, tra cui spicca lo straordinario “Inspiration Information, Vol. 3” in cui la band si mette al servizio del padre dell’ethio-jazz Mulatu Astatke.

La musica degli Heliocentrics, palesemente figlia dell’improvvisazione, è uno stupefacente ponte fra jazz, psichedelia, funk, hip-hop, krautrock, afrobeat e una miriade di altre sonorità. Tutto è tenuto insieme dall’irresistibile groove suonato all’infinito da Catto e dal bassista Jake Ferguson, ora swingando, ora trasformandosi in un funk morbido e sinuoso ma travolgente, ora viaggiando dritto come il più tedesco dei motorik. I pezzi fluiscono uno dentro l’altro e il suono inconfondibile della band seduce e avvolge immergendo l’ascoltatore in quello che sembra un unico brano, una lunga jam fatta di sezioni con personalità diverse e molto riconoscibili, a tratti persino cantabili.

Nei brani si intrecciano chitarre, tastiere, elettronica, fiati, archi, senza indulgere mai in virtuosismi o eccessivi solismi, e anzi sempre al servizio di un suono denso, tracimante, spaziale, lisergico. C’è poi la vera novità di “A World Of Masks” rispetto al resto della discografia degli Heliocentrics, ovvero la splendida e versatile voce della slovacca Barbora Patkova. I suoi gorgheggi ipnotici e i suoi sensuali mantra, perfettamente allineati al suono psichedelico e all’approccio free del gruppo, donano ai brani una dimensione e dei colori nuovi e contribuiscono ad esaltarne ulteriormente l’individualità.

Lasciatevi trasportare dal lento e caleidoscopico incedere di “Human Zoo”, o viaggiate nello spazio immersi nelle atmosfere sinistre di “The Uncertainty Principle”. È impossibile restare impassibili.

Giulio Crestini consiglia:

Anna Calvi, Anna Calvi

Domino, 2011

anna calvi“Anna Calvi” è un disco molto interessante che nel  2011 ha rivelato al mondo musicale il talento di Anna Calvi. Dieci brani intensi in cui la voce seduce al primo ascolto. E’ una musica passionale, intima, un rock scuro asciutto e disperato. Le canzoni sono ben arrangiate, a volte sofisticate con un gusto retrò, contraddistinte da una ricerca stilistica che trae ispirazione dal blues primordiale, evidente nel la sonorità intime della sua Telecaster . Un album immediato che spero possa piacere a chi ancora non la conosce.

 

Fabrizio 82 consiglia:

Howard Shore, Crash (O.S.T.)

Superb Records, 1996

Howard ShoreNell’ormai lontano 1996 il genio di David Cronenberg decise di misurarsi con il rivoluzionario romanzo Crash di J. Ballard, adattandolo cinematograficamente e personalizzandolo quanto bastava, sfornando un prodotto di straordinaria fattura che poco fu compreso dal pubblico e dalla stessa critica. Come di consueto, il regista canadese affidò la colonna sonora al connazionale Howard Shore, che decise di improntare una  partitura elettronica figlia di un minimalismo sinistro e distorto che calzava alla perfezione con la trama disturbante del film (e del romanzo stesso). Nonostante gli interventi musdicali siano ridotti al minimo sindacale, Shore riesce a puntellare scene e tematiche del film diventando parte integrante del girato, sottolineando con l’uso quasi esclusivo di tastiere e synth i numerosi incidenti rappresentati, i quali fungono da stimolo per i protagonisti di questa pellicola, avendo come fine ultimo il raggiungimento di un’eccitazione dettata dal connubio tra motori che si distruggono e relativi amplessi consumati nelle immediate vicinanze degli stessi. Ognuno di essi vede fondere i rumori prodotti dagli urti tra i veicoli con le note soffuse che si strutturano come una lunga suite lievemente modificata tra un passaggio e l’altro, magari risultando a tratti monotona ma restando incredibilmente funzionale se rapportata all’utilizzo che ne viene fatto all’interno della narrazione. Non si tratta di un lavoro facilmente fruibile, ma il rating di film e soundtrack resta elevatissimo. Da riscoprire.

Federico Forleo consiglia:

Cocteau Twins, Treasure 

4AD, 1984

 

Cocteau TwinsDurante l’ estate di 33 anni fa, dividendosi fra i cieli grigi e uggiosi di Edimburgo e di Londra, gli scozzesi Cocteau Twins registrano “Treasure”, capolavoro senza tempo e apice incontrastato di tutto il movimento denominato dream-pop. Dieci nomi femminili, dal richiamo mitologico e antico, vengono inconsciamente evocati nelle liriche improvvisate e nonsense di Liz Fraser (ben distanti dalla rigida grammatica del kobaiano dei Magma), attraverso le quali la cantante è libera di far scorrere i propri flussi emotivi leggiadri e ultraterreni. Il candore delle sacrali armonie celtiche della tradizione gaelica (“Pandora”, “Donimo”) si sposa alla perfezione all’oscurità del dark e della new wave contemporanea (“Beatrix”, Amelia”). Gli ostinati pattern di batteria elettronica (“Persephone”, “Cicely”) programmati da Robin Guthrie fanno invece da contraltare ai suoi sognanti arpeggi (“Aloysius”), egregiamente supportati dal basso del nuovo entrato Simon Raymonde. E accanto a gemme di impatto immediato quali le due iniziali “Ivo” e “Lorelei” trova anche spazio l’ambient opprimente dello strumentale “Otterley”, a plasmare definitivamente il suono dell’etichetta 4AD, fondamentale label anni 80.

Un “tesoro” inestimabile, un “sogno” pop a occhi (e orecchie) aperti.

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