Ago 132018
 

Come da parecchi anni a questa parte, ci piace accompagnare la pausa ferragostana con una selezione di album ed artisti che a nostro parere meritano un ascolto più approfondito ed attento, consentito dal maggior tempo a disposizione in questi giorni di riposo. In questa prima parte vengono proposte opere che risalgono al secolo scorso, a breve verrà pubblicata una seconda selezione, basata su album più recenti.

★★★★★

La redazione di Slowcult augura a tutti buon Ferragosto!!!

Claudia Giacinti consiglia: 

New York Dolls (1973 Mercury Records)

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Un gruppo seminale non sa di esserlo, sa solo che deve dare libero sfogo a una vena creativa che implode da dentro e prorompe all’esterno in maniera naturale e inconsapevole. Senza dover compiacere il mercato, senza rincorrere i consensi dello show business. Ma al contempo impattando e sconvolgendo entrambi. E’ il caso dei New York Dolls e del loro album d’esordio omonimo con il quale nel 1973 aprirono la strada a un rock di matrice glam e al contempo proto-punk che, proseguendo il discorso iniziato dai loro conterranei Velvet Undeground, MC5 e Stooges ma anche seguendo il sentiero tracciato oltreoceano da gruppi quali i T-Rex, divennero punto di riferimento indiscusso di tante band al di la dal venire e che a loro volta lasciarono il segno. Con un rock and roll sporco e seducente, abbinato a un’immagine ambigua e spregiudicata, Johnny Thunders e soci danno vita a quello che a posteriori verrà considerato una pietra miliare della storia del rock. Tutte le tracce racchiuse tra Personality Crisis e Jet Bay, passando per Frankenstein e Bad Girl, sono un concentrato di tensione e velocità, un fuoco di fila serrato tra sonorità ruvide e ammalianti allo stesso tempo che ancora oggi sopravvivono al passare del tempo molto più dei loro protagonisti, tutti passati a miglior vita prematuramente, bruciati dagli eccessi di un fuoco che continua immortale ad ardere nella loro musica. Lunga vita al rock and roll, e buon ascolto.

Fabrizio Fontanelli consiglia:
Bob Dylan, Street Legal (1978 CBS Columbia) 
DSC_0140Un album sottovalutato, ma pieno di perle, come l’iniziale “Changin of the guards”. Ancora non si parlava della sua conversione al cattolicesimo, anche se qualche accenno qua e la lasciava presagire qualcosa. Un disco variegato con accenti country, gospel e poi la seconda perla quella “señor” ancora oggi cosi attuale visto che si parla di texani disperati che oltrepassano il confine.
Nove pezzi, per uno dei lavori più affascinanti di Bob Dylan, da recuperare anche solo per quei due brani citati, ma anche “Is your love in vain? ” è una di quelle fottute ballad che ti prendono e non ti lasciano andare.

 

Federico Forleo consiglia: 

Robert Wyatt, Old Rottenhat ( 1985 Rough Trade) 

forleo discoestate18“Sei davvero Robert Wyatt?” – “Diciamo che lo ero”. Questo si sentì rispondere il giornalista David Granville quando incontrò Robert Wyatt nel 1984. Nove anni erano trascorsi dalla pubblicazione del suo ultimo album (“Ruth is Stranger Than Richard”), e, a parte qualche piccola collaborazione (come scordare quella con Elvis Costello per “Shipbuilding?”) e l’incisione dei bellissimi 45 giri di cover “politiche” per la Rough Trade (uno su tutti “At Last I Am Free” degli Chic) il musicista di Canterbury sembrava essere scomparso completamente dalle scene, preso dal suo impegno politico in un epoca dominata dalla Guerra Fredda, lo sciopero dei minatori britannici e l’offensiva della Thatcher contro i sindacati.
Un clima internazionale che lo spinge fortunatamente a tornare sui suoi passi, perchè “Tutti nel rock devono interessarsi di politica”. Ma siamo ben distanti da quel “Combat Rock” clashiano di pochi anni prima, fatto di inni da cantare a squarciagola. In “Old Rottenhat”, a liriche al vetriolo nei confronti dell’America (definito “un impero ariano” in “The United States of Amnesia”) o dell’Indonesia nei confronti del Timor Est (“East Timor”), fanno da contrappunto armonie soffuse e eleganti, suonate interamente dal solo Wyatt che si divide tra tastiere, piccoli organi, pianoforti e un piccolo set di percussioni. L’opener minimalista-jazzata “Alliance”, la piccola suite per tastiera-giocattolo “Speechless” e la scala al paradiso di “Gharbzadegi” attraversano un disco in perfetto equilibrio tra rabbia e dolcezza, a confermare la maestria di Wyatt nel fare convivere emozioni apparentemente in contrasto tra di loro.
Fabrizio 82 consiglia:
Giorgio Gaber – Anni Affollati (1981 Carosello Records)

anni affollatiD’estate solitamente ci si rilassa, ma con i tempi correnti è d’obbligo restare concentrati sulle vicende relative alla società che ci circonda. Ed Anni Affollati, del grandissimo Giorgio Gaber, resta dopo oltre trent’anni una delle testimonianze più ficcanti del secondo novecento italiano, travalicando i confini della piece teatrale e collocandosi come vera e propria esegesi della seconda repubblica. Impossibile dimenticare il testo di Io se fossi Dio, spietata e dolorosa analisi del travaglio politico e sociale figlio del dopoguerra, punto focale di un lavoro perennemente in bilico tra prose satiriche amare (L’Anarchico, ma su tutti Il Porcellino, mutuato da Celine) e momenti di malinconica riflessione esistenziale (Il dilemma), ma con il tema dello sfascio sociale sempre in prima linea, sottolineato dall’omonimo Anni Affollati in maniera quasi sussurrata, passando per 1981, vera summa del fallimento delle ideologie con un tema portante ripreso da un discorso sul Futuro, mostrando il lato di un Gaber deluso ma animato sempre da un filo di speranza. La resa live dello spettacolo teatrale del duo Gaber-Luporini resta impressionante, non perde nulla della forza eversiva che proponeva nel lontano 1982, ma anzi suona come una profezia funesta sul quel passato che ora viviamo nel nostro presente, un presente dove le mezze figure sociali ed il ritorno delle intolleranze pregiudicano qualsiasi forma di ottimismo o di semplice apertura mentale. Gaber almeno, era un mascherato ottimista. Oggi, difficilmente qualcuno di noi può definirsi come tale

Marco Mazzeo consiglia:
Lou Reed, Perfect Day da Transformer (1972 RCA) 

marco louSuggerisco il pezzo “Perfect day” di Lou Reed, brano che uscì nel 1972 nell’album Transformer, per una serie di buoni motivi. A parte il fatto che ha segnato il mio background giovanile, ma anche un amore da adulto; ma sopratutto perché è un idea universale che appartiene a tutti, senza distinzioni di classi, di età, di idee. Chi non ha avuto o non desidererebbe un giorno perfetto? Ognuno di noi ambisce o serba nella memoria momenti indelebili, frame perfetti della propria vita. Il Pezzo narra semplici piccole cose quotidiane: una passeggiata al parco, un film al cinema, vita domestica. Sicuramente descrive un giorno ordinario vissuto nella sua sua amata N.Y. Ma i critici già ai tempi si ponevano un quesito: Per Lou Reed fu sublime momento catartico o serenità artificiale di una dose? Aveva già pagato il suo pusher (“I’m waiting for my man” “Heroin”, brani già scritti nel famoso album con i Velvet Underground di Warhol) e perciò si era “fatto”, o passeggiava sereno e naturalmente ispirato mano nella mano con la sua donna Bettie Kronstad che poi divenne sua futura moglie? Nessuno lo sa. Tranne per un aspetto. Perché in ogni caso, qualsiasi traccia solca nella propria vita, si reca un risultato tangibile; e questo Lou ce lo esprime attraverso l’ultimo ritornello del suo testo. Una intuizione degna di un filosofo: “You’re going to reap just what you sow,” “raccoglierai ciò che hai seminato”. Lo stesso analogo concetto che in forma diversa ma simile, ci esprime il grande poeta portoghese Fernando Pessoa: “La vita è ciò che facciamo di essa”.

Fabrizio Forno consiglia:

XTC – Apple Venus Vol.1 (Cooking Vynil, 1999) e Wasp Star – Apple Venus Vol. 2 (Cooking Vynil, 2000)

 

DSC_0140 (Copia)Perché limitarsi ad un solo album quando si ha l’imbarazzo della scelta? D’altronde si tratta di due volumi, quindi di un ascolto che si completa solo se ci si dedica ad entrambi i lavori, usciti a distanza di poco più di un anno tra loro. Parliamo praticamente dell’epitaffio della band di Swindon, a detta di molti la più colta e tipicamente britannica tra le band new wave. I due dischi vennero alla luce quando gli XTC non erano rimasti altro che Andy Partridge e Colin Moulding, ovvero l’essenza, la parte creativa e geniale della band. Sodalizio tra i più efficaci, produttivi ed interessanti della storia musicale d’oltremanica, non da meno di coppie più celebri e celebrate quali Lennon/McCartney, Jagger/Richards o Strummer/Jones.  This is Pop, recitava il titolo programmatico di un brano di White Music, loro esordio del 1978. Ebbene se volete il manuale del perfetto brano Pop, nel senso più alto, nobile, colto e autorevole del termine, non dovete far altro che avvicinarvi agli XTC. In questi due lavori (uno, il primo, più ambiziosamente orchestrale, l’altro più tradizionalmente elettrico) pervasi da una particolare vena ironica e creativa, troverete un cospicuo numero di canzoni con la C maiuscola, con grandi arrangiamenti ed impasti vocali, improvvise aperture armoniche ed altre grandi sorprese musicali. In una recente intervista, ad Andy Partridge venne chiesto quale fosse la cosa di cui andava più fiero. “L’aver scritto canzoni valide quanto quelle dei Beatles, dei Kinks, dei Beach Boys e di tutti quelli che idolatravo da ragazzo. So che molti si sbellicheranno dalle risate, ma nonostante io provenga da uno squallido condominio popolare di Swindon, ho scritto – io e i miei compagni – della musica buona quanto quella dei nostri eroi.” Vi assicuro che si tratta di un’affermazione nient’affatto presuntuosa, ma sincera e veritiera.

 

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