Ago 122019
 

Ecco la seconda parte dei consigli per gli ascolti, redatta come da tradizione da Slowcult con l’intento di suggerire album che l’arrivo della pausa di metà estate può rendere più apprezzabili e gustosi, senza la solita frenesia e le consuete distrazioni del resto dell’anno.

La redazione di Slowcult augura nuovamente a tutti buon Ferragosto!!!

★★★★★

Dark Rider consiglia: 

Wolcensman – Songs from the Fyrgen (Indie Recordings2018)

marcello stelle19 (Copia)Le vie del folk inglese sono impervie, spesso imprevedibili, ma foriere di gemme preziose, rare e sconosciute.
Ora esso rinasce, con Wolcensmen, come “neofolk arcaico” ad opera del geniale Dan Capp, già membro di una interessante band “black metal” di Manchester, Winterfylleth, che con rara efficacia esplora, con sonorità che spaziano dal black al folk metal, il retroterra culturale dell’Inghilterra pagana e primitiva.
Questo nuovo progetto (Wolcensmen, forse, vuole significare Uomini delle Nubi, in inglese arcaico) parte in sordina, già nei primi anni del decennio, ma nel 2016 trova la prima pubblicazione il primo album, “Songs from the Fyrgen” tramite la etichetta discografica Deivlforst Records; il tam tam degli ambienti “underground folk” induce la casa discografica Indie Recordings a rimixare e ristampare, nel novembre 2018, il seminale album di esordio, unendo ad esso l’ep “ Songs from the Mere”. Il risultato è una delle opere migliori degli ultimi anni, in ambito “neofolk”, che scava nelle radici dei costumi delle popolazioni britanniche antiche, e delle loro credenze religiose, utilizzando la lingua arcaica, di fatto una commistione di inglese moderno, antico e termini germanici, realizzando una operazione filologica, e proseguendo in una opera di investigazione e recupero di sonorità dei tempi antichi, che forse solo Comus, e con differenti modalità, Current 93 avevano in parte realizzato.
L’animatore del progetto, Dan Capp, di fatto una “one man band”, che si avvale di collaboratori, dichiara di aver tratto la sua ispirazione dagli elementi “folk” presenti nella produzione artistica di Opeth, dei primi Ulver, Bathory, Satyricon, Empyrium, Dead Can Dance; la sua musica è una suggestiva commistione di elementi “dark folk” ed “Ethereal”; suoni molto semplici, arpeggi di chitarra immaginifici, batteria essenziale, cori, voce solista, flauti, violoncello; il tutto genera nell’ascoltatore una sensazione di mistero, di attesa favolistica: è palese il richiamo al mondo di Tolkien, al suo immaginario di draghi ed elfi, folletti, dame, epici cavalieri. Un esplicito tributto, il musicista lo rende anche a Wardruna, ottima band di “pagan folk” norvegese, nota per avere sostenuto, negli ultimi mesi, una forte battaglia culturale sul web volta a contestare l’egemonia culturale che l’estrema destra, indebitamente, da anni esercita sui miti e le leggende nordiche.
L’Autore dice di aver appreso l’amore per il folk ascoltando una band irlandese in un pub di Dublino; in effetti, il coinvolgimento di queste sonorità fluenti, immaginifiche, crepuscolari è notevole. Laddove il folk inglese classico Pentangle, Steleeye Span (che comunque rappresentano una fonte per il musicista) era più descrittivo e “freddo”, il progetto Wolcensmen risulta di maggior impatto emotivo, per certi versi più vicino al drammatico straniamento “neofolk” di Current 93, anche se, in realtà, pervaso da maggiore serenità e spirito meditabondo.
La celebrazione pagana della natura nella sua selvaggia bellezza, nella sua misteriosa potenza pervadono l’opera: Fyrgen, infatti sta per collina boscosa, Mere citato nell’ep ristampato ed allegato sta per lago. E l’acqua è elemento fondamentale per la religione pagana; e da essa nasce la Legge per la comunità, perché è immaginata come “stabilita” da strati su un pozzo, con il flusso e la espansione del “Wyrd”, il Destino, che conferisce valore alle tavole della Legge. L’elemento religioso primordiale è ben evidenziato, l’Autore non a caso definisce il suo progetto “Heathen Folk” e l’atmosfera di mistero richiama l’esoterismo degli antichi riti pagani delle campagne inglesi. Una, per certi versi, rivendicazione e valorizzazione culturale della Albione pre-cristiana, vista come pura ed incontaminata, in quanto il Cristianesimo viene ritenuta una religione importata da altri popoli (anche se l’autore, nelle note di copertina precisa di non avere alcun pregiudizio nei confronti di essi); si realizza, con queste modalità, la celebrazione della natura, della sua magia e del suo incanto, che genera stupore e timore primordiale, ed è posta in antitesi alla moderna industrializzazione selvaggia. Una poetica di luce/oscurità intrisa di misticismo e di malinconia, di arcaiche suggestioni, dove la vita agreste è vista come reale rivelatrice della umana essenza, il principio e la fine di tutte le cose. Di grande suggestione, in particolare, alcuni brani, come The Fyre-Bough, The Mon O’ MIcht, Snowfall, Lady of the Depe (uno dei più belli, che contiene riferimenti ai laghi ed alla tradizione esoterica), e la cover del brano “folk” dei Bathory, “Man of Iron”. Ma tutti i brani contribuiscono a realizzare un’opera fortemente suggestiva e potente, di grande fascinazione e pacatezza.

Giulio Crestini consiglia:

Ry Cooder/ Ali Farka Toure – Talking Timbuktu (Hannibal Records 1994)

DSC_0009 (Copia)E’ un viaggio nel cuore dell’Africa, alle radici del blues. Una musica semplice ma molto efficace che va dritta al cuore, naturale, viva che riesce a trovare un perfetto equilibrio tra due mondi lontani. Atmosfere sospese, dilatate dove è facile abbandonarsi al ritmo ipnotico. Ali Farka Toure è un vero gigante della musica africana con uno stile chitarristico unico, immediatamente riconoscibile. Talking Timbuktu è puro blues africano, un album eccezionale che possiamo tranquillamente considerare un capolavoro

 

 

 

Federico Forleo consiglia:

Neurosis – Times of Grace (Relapse, 1999) 
Fede Disco Estate 2019Partito dal Teatro di Ostia Antica di Roma, il tour estivo europeo dei Neurosis ha visto il loro ritorno a vent’anni esatti dall’ultima apparizione nella capitale; era infatti il 1999 quando la band di Oakland, con supporto i Voivod, suonava presso il Palacisalfa per promuovere l’ultima fatica in studio dell’epoca, Times of Grace. Un disco di transizione a cavallo di due secoli, di due millenni, ma soprattutto di due fondamentali fasi artistiche che hanno attraversato l’esaltante percorso musicale dei nostri.
All’hardcore dei dischi d’esordio i Neurosis, con la pubblicazione dell’immenso Souls at Zero, introducevano già nel 1992 influenze dark e industrial uniche per quei tempi, culminate con l’album Through Silver in Blood del 1996, unanimante riconosciuto come il loro apice assoluto. Times of Grace ha probabilmente sempre sofferto il fatto di esserne il successore, e ancora più di essere meno accessibile rispetto ai due successivi capolavori A Sun That Never Sets e The Eye of Every Storm, all’interno dei quali le urla lancinanti e disperate di Scott Kelly lasceranno sempre più spazio alla cupa profondità della voce di Steve Von Till.
Ma a ben vedere (e sentire) è proprio con questo disco che il post-metal, genere di cui i Neurosis sono considerati i padrini indiscussi, può essere definito in tutta la sua integrità. Ed è qui che troviamo il perfetto equilibrio tra la devastante gravezza del metal-hardcore e l’epicità apocalittica del post-rock. La decisione poi di affidarsi alle mani e alle orecchie sapienti di Steve Albini (che sempre li seguirà da qui in avanti) permetterà al loro suono di acquisire un’ unicità autentica e totale, difficilmente eguagliabile da altre band a loro debitrici (forse solo dagli Isis).
All’incipit-mantra di Suspended in Light subentra l’implacabile The Doorway dove, per la prima volta grazie ad Albini, la rabbia distruttiva dei Neurosis assume in studio il carattere che aveva sempre cercato. E se il claustrofobico intro tribale di Under The Surface sfocia in una parte centrale dominata da violini e violoncello in puro stile Godspeed You! Black Emperor (che avrebbero pubblicato la loro pietra miliare Lift Your Skinny Like Antennas to Heaven solo l’anno successivo), la successiva The Last You Know diviene il manuale a cui deve riferirsi qualsiasi band post-metal. Exist (quasi una rilettura per chitarre del piano elettrico del John Carpenter di Julia tratto da Assault on Precint 13) ci anticipa il nuovo corso post-folk che verrà messo definitivamente a fuoco in Away, gemma dell’album e vero preludio a tutto ciò che gli ascoltatori troveranno tra i solchi dei dischi e sui palchi negli anni successivi: una band che, anche se lievemente meno nell’ultimo decennio, continua a vivere in uno stato di grazia perenne.

 

Fabrizio Forno consiglia:

DSC_0005 (Copia)PAUL SIMON – Graceland (Warner, 1986)
Benedetta sia quella musicassetta che nel 1984 giunse alle orecchie di Paul Simon.
Conteneva musica proveniente dalle township sudafricane, che catturò il Nostro e lo spinse a scuotersi dalla depressione che da anni lo attanagliava e recarsi a Johannesburg insieme al suo produttore; viaggio da cui scaturì questo album capolavoro, opera seminale e classico disco da portarsi sulla proverbiale isola deserta.
Un’antologia di musica popolare nel senso più estensivo del termine: country, ovviamente musica folk africana, blues, zydeco, a condire un songwriting ai livelli della migliore produzione di Simon, quella in coppia con Garfunkel e dei suoi lavori da solista degli anni settanta.
Uno stato di grazia, accompagnato sia da musicisti sudafricani (menzione speciale per Ladysmith Black Mambazo), che da altri nomi prestigiosi, quali Adrian Belew, Linda Ronstadt, Youssou Ndour e addirittura gli Everly Brothers, band senza la quale non sarebbe esistita la premiata ditta Simon & Garfunkel.
Chiamatela folk, chiamatela world music, chiamatela come volete, questa è solo grande, immortale musica  e ricordare solo qualche titolo sarebbe fare un torto agli altri, visto che mai come in questo caso l’intera tracklist rappresenta un unicum di livello eccelso.
Un’ultima menzione per la raccolta uscita nel 2018, Graceland: the Remixes, in cui svariati manipolatori di suoni  (tra cui Thievery Corporation e Groove Armada) ripropongono a più di trent’anni di distanza i brani di Paul Simon, a testimonianza della bontà e dell’immortalità di questo album del piccolo grande uomo newyorkese.

 

 

 

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