Ott 142010
 

Roma, Teatro Vascello, dal 7 al 24 ottobre 2010
★★★☆☆
da Pier Paolo Pasolini

con Antonio Piovanelli, Manuela Kustermann, Oreste Braghieri, Salvatore Porcu
scene e costumi Lino Frongia
realizzazione costumi Alessandro Lai per Sartoria Tirelli
realizzazione scene Mekane – Roma
discegno luci Valerio Geroldi
regia Bruno Venturi
produzione TSI La Fabbrica dell’Attore e La Nuova Complesso Camerata

La stagione di prosa del Teatro Vascello si è aperta il 7 ottobre con Pilade, la prima (e forse la più importante) delle sei tragedie che Pier Paolo Pasolini scrisse a partire dal 1966, un canto politico e sociale di straordinaria attualità, tale da stabilire un punto di svolta nella poetica pasoliniana. Pilade ha debuttato nella nuova sala dedicata alla memoria del Fondatore del Vascello, Giancarlo Nanni, che è stata battezzata nel corso della conferenza stampa del 23 settembre 2010.
Con Pilade Pasolini riprende personaggi della mitologia greca, tracciando una continuazione ideale dell’Orestea di Eschilo, già in precedenza tradotta dall’autore su richiesta di Vittorio Gassman (per la rappresentazione del 1960 al teatro greco di Siracusa). Nell’opera di Eschilo (composta a sua volta di tre tragedie) si narra dell’omicidio di Agamennone, appena tornato dalla guerra di Troia, per mano della moglie Clitemnestra e del cugino Egisto (divenuto nel frattempo l’amante di lei). Agamennone sarà vendicato dal figlio Oreste, che ucciderà prima Egisto e poi la madre con l’aiuto della sorella Elettra e dell’amico Pilade. Per il matricidio compiuto, Oreste sarà perseguitato dalle Furie, fino a che Atena, dea della Ragione, non lo assolverà dalla colpa nel corso di un processo nell’Areopago.
Pasolini riprende la storia da questo punto, con Oreste che, libero dalla persecuzione delle Furie, torna ad Argo. Egli è l’erede di Agamennone, pertanto gli spetta il potere sulla città, in cui decide di innestare il culto di Atena, cioè della Ragione, fredda e severa, che guarda esclusivamente al futuro e taglia ogni legame con il passato (“non ha ricordi – sa soltanto la realtà. – Ciò che essa sa, il mondo è”): è in nome della Ragione che il potere su Argo non dovrà essere il dominio di uno solo, ma condiviso dai suoi cittadini. La piazza di Argo si prepara quindi a rappresentare la città del futuro, illuminata dalla luce accecante della Ragione.
Ma interviene Pilade a risvegliare Oreste dalla sua utopia. Pilade, “l’obbediente, – il silenzioso, il discreto, – il timido, Pilade, nato per essere amico”. Con lui Pasolini vuole rappresentare sé stesso, l’intellettuale rinchiuso nel proprio mondo che può solo gridare contro la Ragione, emblema della sua impotenza, della sua sconfitta, della sua diversità sessuale e spirituale. Pilade è il diverso, “uno di noi”, ma “dotato di una misteriosa grazia”. Mentre per Oreste il movimento della vita è verso il progresso, la prosperità, il potere, per Pilade al contrario ” la più grande attrazione di ognuno di noi è verso il Passato, perché è l’unica cosa che noi conosciamo ed amiamo veramente. Tanto che confondiamo con esso la vita. È il ventre di nostra madre la nostra meta.”
Le diverse prospettive dei due amici degenereranno inevitabilmente in uno scontro: con Oreste, difensore della Ragione, che instaura ad Argo un potere democratico che si tramuta nel dominio di una sola classe (quella borghese), e Pilade che si pone a difesa dei poveri, degli sfruttati. In questo dramma politico e contemporaneo, Elettra, sorella di Oreste, rappresenta invece il rimpianto del passato, dell’autorità tradizionale, perfino della tirannia.
La città di Argo condanna Pilade, paladino degli esclusi, all’esilio. La vittoria finale spetta a Oreste e alla sua dea: il passato è messo da parte, al posto delle vecchie case sorgono fabbriche e palazzi, mutano i costumi e le ideologie. E’ il benessere generale, ma Pilade ed Elettra ne restano fuori, soli, disperatamente alleati e sconfitti. Pilade ha comunque maturato una nuova consapevolezza, si è reso conto di essere finito intrappolato nello stesso meccanismo che ha accecato Oreste nel momento in cui ha cercato di togliergli il potere: “Oreste in tuo nome ha distrutto un monumento e ne ha eretto un altro, ed io stavo per fare lo stesso, ma per fortuna il mio monumento resterà incompiuto”. Si congeda quindi da Argo lanciandole un’ultima maledizione “(…) va! Va nella vecchia città’ la cui nuova storia io non voglio conoscere. Perché temere la vergogna e l’incertezza? Che tu sia maledetta, Ragione, e maledetto ogni tuo dio e ogni dio”.
Pilade non è un semplice dramma contro il potere, quanto sul potere e la sua ferocia, e sull’inarrestabile ascesa dell’individuo verso essi. Con una prosa di grande linearità ed efficacia (il “teatro di parola” pasoliniano doveva arrivare facilmente a tutti) Pasolini forniva una rappresentazione in linea con la sua concezione del teatro, da lui pensato come luogo di diretto confronto intellettuale tra autore e spettatore. La messa in scena di Venturi ha scelto di lavorare molto sulla riduzione del testo, per portarlo alla sua essenza nonostante le difficoltà derivanti dal fatto che esso fu scritto e riscritto più volte da Pasolini tra il 1966 e il ’70, e che l’autore stesso ne fornì interpretazioni diverse. Per i personaggi in scena (l’intenso Antonio Piovanelli per Oreste, Manuela Kustermann dolente nel ruolo di Elettra e Oreste Braghieri in quello di Pilade) si è scelto di mantenere stili recitativi e cadenze linguistiche diverse, scelta interessante ma forse un po’ rischiosa


Recensione di Antonia Ori

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