Apr 042012
 

Faust, di Alexander Sokurov, con Johannes Zeiler, Anton Adasinskiy, Isolda Bychauk, Georg Friedrick, Hanna Schygulla. Sceneggiatura: Juri Arabov, Marina Koreneva. Russia, 2010, Durata 134 minuti, Gcg Home Video, Euro 14,90

★★★★☆

Alexander Sokurov è il più grande regista russo vivente e certamente uno degli attuali maestri del cinema mondiale.

Noi lo abbiamo conosciuto per lo splendido “Arca Russa”, un fantasmagorico viaggio all’interno dei capolavori del museo Hermitage di Leningrado, in cui secoli di storia russa e del mondo venivano descritti poeticamente, per concludere con una raggelante previsione sulla fine della storia.

In buona parte dobbiamo ad Enrico Ghezzi nell’ambito della sua benemerita trasmissione notturna di “Fuori Orario”, la riproposizione dei suoi capolavori che hanno consentito almeno ad un pubblico di nicchia la conoscenza di questo grande artista, paragonato giustamente all’immenso Andrei Tarkowsky, le cui opere sono apparse fuggevolmente nelle sale.

L’ultima sua opera, “Faust”, conclude idealmente una tetralogia cinematografica sulla natura del potere, dopo i films su Hitler (Moloch), su Lenin (Toro), e su Hiro Hito (Il Sole).

In “Moloch” vediamo un Hitler banale e quotidiano, in vacanza con Eva Braun in un castello tra i monti, dove le paranoie, la follia, la solitudine del tiranno vengono mirabilmente descritte, mentre in “Toro” viene demistificata la figura di Lenin, che sul letto di morte vede svanire i suoi sogni rivoluzionari, di fronte al crescente potere ed all’ambizione di Stalin; ne “Il Sole”, infine, l’imperatore Hiro Hito ci appare nel momento in cui annuncia ai suoi sudditi la rinuncia ad essere discendente del sole, accettando di spogliarsi di ogni aura divina, e sfiorando il ridicolo.

Con la trasposizione della straordinaria opera di Goethe, Sokurov chiude la sua tetralogia sul potere realizzando uno splendido film, visionario e inquietante, meritatamente insignito del Leone d’Oro alla 68^ Mostra del Cinema di Venezia, che, fortunatamente, ha avuto buona diffusione nelle sale.

Essa rappresenta una potente messa in scena del Male nella totale assenza del sacro.

Utilizzando immagini caleidoscopiche, fortemente evocative, impregnate di pittorcità classica, soprattutto del primo ottocento europeo, ma anche di fotogrammi virati, piani obliqui, sotterranei oscuri e per contrasto della luce accecante del giorno, il Regista realizza una visione di cinema che, pur senza ricorrere ad effetti speciali, rimane, per la sua straordinaria capacità inventiva, un’esperienza unica.

Ci viene descritta l’ansiosa ricerca del Dottor Faust, mente irrequieta che anela all’assoluto, che si muove continuamente e nevroticamente, fin quando appare il Diavolo, nelle sembianze di Mefistofele, un usuraio dalle apparenze di un uomo mite e accomodante, che lo segue ovunque tentandolo con le sue profferte, al fine di catturargli l’anima. Il quadro umano appare fosco, crudele, pieno di diavoli umani sordidi, inaffidabili e violenti, e neanche il prologo del film, che si svolge tra le nuvole, appare pervaso da qualche presenza angelica o divina. Si parla di sacro, continuamente, diffusamente, ma nessuna traccia appare di esso.

L’assistente di Faust, Wagner, appare quasi una figura caricaturale, ricolma di follia.

Sin dalle prime immagini, appare un paesaggio infernale, ove il protagonista, coadiuvato da Wagner, studia le interiora di cadaveri orribilmente sezionati, in una livida palude di cui sentiamo il fetore, dove il cinismo dell’animo umano sembra assomigliare a quello demoniaco. In una sequenza successiva, il contrasto tra il bagno di ragazze innocenti e la rivelazione del diavolo nella sua deforme e mostruosa corporeità sembra quasi rappresentare l’aspirazione alla purezza ed il suo inesorabile conflitto con il mondo degli inferi.

Il vagare senza meta, senza sosta e senza appagamento del Dottor Faust, affamato non solo di conoscenza, ma di cibo, di sonno, di danaro, di contatti amorosi (ma sarà incapace di cogliere l’amore di Margarete) fa da contrappunto al caos spirituale ed alla sofferenza umana rappresentata con grande forza in questo poema visionario che descrive il male nel mondo, l’inferno sulla terra. Viene in mente, oltre alla pittura classica citata, quella apocalittica del grande Hieronymus Bosch, caratterizzata dalla sua umanità dolente, i volti tumefatti, stravolti e sgomenti degli esseri umani che la abitano, in una costante e angosciosa claustrofobia.

Il talento visionario di Sokurov descrive il destino di quest’uomo che si confronta col male, che arriva al patto con l’immondo demonio che lo segue, lo domina, al quale infine si ribella, ricoprendolo di pietre, nell’ultima geniale sequenza che si svolge tra lande e ghiacciai impervi, ma dal quale comunque forse non si salverà, perché dominata dal male è la natura dell’uomo.

Il Regista ha conservato la lingua tedesca nell’edizione originale del film, non tanto per omaggio alla scrittura di Goethe, o di Thomas Mann, quanto perché riteneva quella lingua idonea ad esprimere pienamente la tragicità.

Si tratta di un’opera ostica, aspra, difficile concettualmente, ma di incommensurabile bellezza: se ci si lascia andare al fluire delle splendide immagini, se si apprezza il talento visionario del Regista russo e la profondità interiore che può raggiungere certo cinema, si uscirà dall’esperienza visiva pienamente appagati. Lo spessore, la capacità di introspezione psicologica della grande letteratura russa, di Tolstoy, di Dostoevskiy si sposano mirabilmente con la densità, la gravità, la grandiosa tragicità della “Kultur” tedesca.

 

Recensione di Dark Rider

 

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