Giu 302014
 

David Foster Wallace. Una cosa divertente che non farò mai più
Minimum Fax, 2012. 149 pag. 12.50 euro

★½☆☆☆

una-cosa-divertente-che-non-faro-mai-piuScrivere di un libro che negli anni è diventato quasi un classico e il cui autore, togliendosi la vita, è entrato in quell’Olimpo in cui sembra essere molto difficile raggiungerlo, è impresa irta di difficoltà. Oltre a questo, come tutti sappiamo benissimo, Foster Wallace già in vita era uno scrittore estremamente apprezzato e portato ad esempio come capacità e originalità di scrittura.

Purtroppo io non sono mai entrato in sintonia con il suo narrare.

Come a volte mi accade, non riesco ad affidarmi al fluire della narrazione perché percepisco come troppo lontano il punto di vista di chi scrive. In questo particolare caso, forse perché suggestionato dalla vicenda personale dell’autore, ho avvertito nella scrittura un’ossessività, una patologica attenzione ai particolari più minuti e insignificanti, una dispersione strutturale in mille rivoli, che mi hanno guastato il piacere della lettura.

L’intero testo è un reportage su una crociera più o meno di lusso, scritto su commissione per una rivista americana e che, nel corso del tempo, D.F.W. ha via via ingigantito sino a tramutarlo in una sorta di mostro ipertrofico. Si incontrano moltissime pagine in cui il testo in senso stretto occupa molto meno spazio delle note a piè di pagina e lunghissimi brani sono formati da interminabili descrizioni di insignificanti minuzie. Visto l’apprezzamento planetario di questo testo, non solo di pubblico ma anche di autorevolissimi critici e scrittori, è probabile che il problema sia tutto mio e che io non riesca a vedere “la grande bellezza” di questo scrittore.

Dopo aver fatto un brutto frontale con “La scopa del sistema”, avevo rinunciato a leggere i suoi romanzi, ma qualche anno dopo avevo letto con piacere “Considera l’aragosta”, una raccolta di brevi saggi su una decina di argomenti diversi e allora mi sono lasciato tentare da questo macroreportage. Purtroppo m’è andata male.

 

 Roddy Doyle.  La musica è cambiata
Guanda, 2014. 400 pag. 18.50 euro

★★½☆☆

musica-cambiata-roddy-doyle-620x1000 Anche quando non è al massimo della forma, come in questa nuova uscita, è difficile non apprezzare Roddy Doyle. Certo, in moltissime altre occasioni i suoi romanzi e i suoi racconti erano dei veri gioielli mentre in questo caso siamo alle prese soltanto con una pietra dura ben lavorata, ma le caratteristiche della sua esuberante scrittura, i dialoghi mordaci e la passione per la musica che tracima in ogni pagina, fanno di lui uno dei miei autori preferiti. Come ho già iniziato a dire, questo non è certamente il suo miglior romanzo: risente di una certa stanchezza inventiva (non credo sia un caso che sia andato a ripescare Il vecchio Jimmy Rabbitte, il manager degli indimenticabili “Committments”) a volte rallenta fin quasi a fermarsi e altre volte si aggroviglia su se stesso senza un motivo preciso. Anche il tema centrale del romanzo, una sorta di filo rosso che ne unisce il dipanarsi, e cioè il cancro all’intestino del protagonista, non aiuta certo a rendere leggero il testo, ma non credo che la sensazione di lieve fatica che ho avuto nella lettura dipenda da questo. Quel che ho capito (o credo di aver capito, ma fa lo stesso) è che tutto il romanzo si basi sulla fatica di continuare a vivere dopo il mezzo secolo, nel momento in cui si è certi che il meglio della vita è passato da un bel pezzo. Nel tentativo di tirare avanti e rianimare passioni e pulsioni si è inevitabilmente costretti a tornare indietro e questo rende il romanzo una faticosa, quasi dolorosa corsa a ritroso, un tentativo più o meno palese di riesumare il passato. E questo si nota chiaramente anche dall’attività del protagonista (ritrovare e riproporre gruppi meteora di venti/trent’anni prima)  e dalla sua storia di sesso con una donna molto desiderata ai tempi dei Committments, la seducente Imelda. Jack Rabbitte lotta contro il tempo e contro la malattia per tutto l’arco del romanzo, cercando di sopravvivere con dignità ad entrambe le lotte, con ostinazione quasi miope, come in una carica di fanteria contro un bunker che mitraglia senza pietà. Anche se il cancro sembra (momentaneamente) non averla vinta, il lettore avverte con chiarezza che si tratta solo di un cessate il fuoco con l’inevitabile e che, per quanto potrà lottare, non potrà mai vincere contro il tempo, al massimo riuscirà ad avere l’onore delle armi. Esattamente come tutti gli esseri umani.

 Philipp Meyer. Ruggine americana
Einaudi, 2010 e 2014. 388 pag. 13.50 euro.

★★★½☆

ruggine Questo romanzo ha ottenuto una corposissima serie di importanti riconoscimenti. Pur rischiando di apparire presuntuoso devo dire  che questa messe di premi non mi sembra completamente motivata. Il merito e, contemporaneamente, la “colpa” di questo romanzo sono evidenti già dal titolo: si parla dello sfacelo socio economico seguito alla crisi finanziaria del 2008. E se, come dicevo, questo è un merito perché ci offre una visuale diversa sul fenomeno, trasformando numeri e percentuali in carne, sangue, desideri e paure, dall’altro lato ci fornisce un romanzo a tesi, incastrato dentro le proprie stesse intenzioni.

Steinbeck, con “Furore”, fece più o meno la stessa operazione con terrificante accoppiata tra la crisi del ’29 e la siccità nella Dust Blow, ma all’amatissimo (da me) John, il premio Nobel non glielo hanno regalato: era capace di innervare una tesi con una creatività controllata eppure mai banale, costruire una prosa ricca ma mai ridondante. Sapeva farti vivere il guasto di un’auto con una drammaticità tale da non riuscire a farti prendere sonno fino a quando non riuscivi a capire che, in qualche modo, Tom Joad sarebbe riuscito a venirne fuori. Purtroppo Meyer, in questo particolare tipo di attività non è versato, non ci riesce. Il vagabondare di uno dei protagonisti, Isaac, un ventenne geniale ma disadattato, risulta freddo e a volte persino banale negli snodi della vicenda. Cosa di più ovvio può accadere se non che un altro vagabondo lo derubi? Che venga pestato a sangue da un gruppo di sbandati? Un altro dei protagonisti, Billy Poe, vive anch’esso una vicenda esistenziale che sembra ricalcare i luoghi comuni di mille film e romanzi. La parabola da eroe locale a fallito senza futuro e senza autocontrollo è uno stereotipo, c’è poco da girarci intorno. Com’è un clichè la sua vita carceraria tra bande di etnie diverse e tutto il solito corollario di ricatti, pestaggi, affiliazioni e omicidi. A mancare non è la capacità di scrittura o la sempre interessante duplice possibilità di lettura (personale-sociale) di tutte le vicende, ciò che fa sbandare il romanzo è la scarsissima originalità delle vicende stesse. A Meyer sarebbe stato sufficiente schivare i luoghi comuni e questo romanzo sarebbe stato un grande testo, come dicevo prima una sorta di “Furore” del terzo millennio. Di certo ho calcato troppo la mano sui presunti difetti di questo romanzo e ho dato l’impressione che sia una mezza schifezza, in realtà non è così, Questo e un romanzo molto buono, ma ciò che ne fa saltare agli occhi le manchevolezze e fa venire voglia di parlarne, è il fatto che sarebbe bastato evitare qualche banale passo falso e un finale da giallo di second’ordine per arrivare vicino al capolavoro. Se non lo ricordate andatevi a leggere il finale di “Furore”, sono un paio di pagine come non ne sono mai più state scritte… E capirete la differenza.

Gajto Gazdanov. Il fantasma di Alexandr Wolf
Voland, 2014. 157 pag. 14 euro.

★★½☆☆

 

fantasmaLa lettura di questo breve romanzo somiglia molto alla visione di vecchio film in bianco e nero. Nell’uno e nell’altro, a seconda della disposizione d’animo con cui li si affronta, si possono cogliere aspetti diversi, talvolta in contraddizione tra loro. Se ne può apprezzare l’eleganza, la preparazione accurata delle frasi/scene, le sfumature del linguaggio/interpretazione e, direi soprattutto, quel senso di ineluttabilità del plot, come se a date premesse la trama non potesse che svilupparsi in quel modo e terminare così, oppure lasciarsi irritare da tutto quello che ho scritto prima perché ormai quelle “cose” sono patrimonio personale, introiettato negli anni come substrato culturale e percepirlo come una sorta di inutile ripasso/ripetizione. Per come la vedo io è una constatazione banale, ma in questo caso, per non essere frainteso, mi pare opportuno ribadirlo: non si può leggere un romanzo (o vedere un film) del 1947 senza essere costretti a mettersi un paio di occhiali con macchina del tempo incorporata e cercare di dimenticare tutto ciò che è stato “fatto” successivamente. So che questo assunto troverà molti in disaccordo, ma non posso fare a meno di pensarla in questo modo: quasi settant’anni (di letteratura, ma anche di tutto il resto) non passano invano. Il mondo che Gazdanov crea, inevitabilmente, ha coordinate spazio-temporali-socio-economiche-psicologiche peculiari della vita come lui l’ha conosciuta e noi, nel leggere, dobbiamo far riferimento a quello. Questa è un’operazione più complessa, non è più semplice lettura. Per chi ama questo tipo di attività può essere una sorta di divertissement culturale, per chi ama scritture e tematiche contemporanee può risultare noioso, apparire come un deja vu. Se siete nostalgici dei film in bianco e nero passati sui rai3 alle tre di notte questo è il libro per voi, se amate le saghe dei supereroi in tre D statene alla larga. A maggior ragione, lo stesso discorso vale per i riferimenti narrativi: se  vi entusiasmano i gialli alla Connelly (o per citarne altri più o meno della stessa grande famiglia  Ellroy, Cornwell, Reichs ecc. ecc.) e andate in visibilio per Mark Leyner, rifuggite questo testo come se fosse veicolo di Ebola. Se invece sui vostri scaffali i classici russi occupano il posto d’onore accanto a Victor Hugo, Zola, Stevenson e  tutti gli scrittori benedetti e consacrati, quelli con cui a leggerli in treno si fa un gran figura… correte in libreria: “Il fantasma di Alexandr Wolf” sarà la vostra lettura dell’estate.

 

Stefano Crupi. Cazzimma.
Mondadori, 2014. 252 pag. 16 euro.

★★½☆☆

cazzimmacover-241x360 Scrivere un commento di questo romanzo, volendone valutare tutti gli elementi, non sarebbe impresa da poco. Per mia fortuna sono chiamato a prendere in considerazione soltanto quello letterario e a trascurare tutti gli altri aspetti che si potrebbero valutare e discutere sull’argomento camorra e il modo di rappresentarlo.

“Cazzimma” è un testo sicuramente ben organizzato sia dal punto di vista linguistico che strutturale. Spruzzate qua e là di espressioni o modi di dire tipicamente campani ne identificano l’origine e ne rafforzano l’espressività e, anche se non sono un fan della “sporcatura” dell’italiano, devo ammettere che hanno un loro senso preciso.

In particolare nella prima parte, quella che termina con la partenza del protagonista dopo un evento che lo segnerà profondamente, il ritmo è sincopato al punto giusto, in perfetta sintonia con la vita frenetica dell’io narrante. Qualche piccolo problema, invece, sembra esserci nella seconda e ultima parte. In quest’ultima la cadenza degli eventi veri e propri è certamente più serrata, ma la scrittura non la supporta, forse perché il lettore inizia ad intuire dove lo scrittore lo vuole condurre o forse perché l’autore voleva trasferire la sensazione di tempi più dilatati adatti a favorire le riflessioni del protagonista. Francamente non sono riuscito a capirlo, ma tutto sommato non importa, di certo la seconda parte convince meno della prima che è certamente scritta con grandissima capacità di illustrare e penetrare gli ambienti.

So che quello che sto per scrivere può essere discutibile e, anche se in qualche modo contraddicendo quel che ho scritto all’inizio, lo faccio ugualmente. Alla fine del romanzo l’autore cita come fonte di ispirazione un articolo di D’Avanzo in cui (se ho ben capito) un giovane camorrista dichiara che i giovani come lui sono camorristi nella testa e che il loro modo di pensare è come marchiato a fuoco nei loro cervelli… e qui i conti non mi tornano. Perchè da tale presupposto si scrive un romanzo dalle conclusioni opposte? Crupi voleva dare una speranza ai giovani campani? Mondadori gli ha imposto un finale più consolatorio? Crupi stesso ha bisogno di avere una speranza?

Mi rendo conto che non sia un tema letterario in senso stretto. Forse avrei dovuto limitarmi a parlare dell’ottima scrittura di Crupi e alla sua capacità di far percepire alcuni particolari strati sociali, le dinamiche di potere in alcuni ambienti, ma a leggere la postfazione il dubbio viene. Qualcosa, nel finale, stride. Dopo una tempesta di violenza ha il sapore dolciastro di una carezza insincera.

 recensioni di Daniele Borghi

  One Response to “Macchie d’inchiostro – Letti nel mese di Giugno 2014”

  1. Non ho mai letto nulla di Wallace. Comunque apprezzo la tua recensione così chiara e diretta. Ci sono ” casi editoriali ” così tanto osannati che postare una voce controcorrente è già importante. Normalmente diffido dei ” libri ” che piacciono a tutta la critica così come diffido dei bestseller.
    Comunque, chissà , magari prima o poi leggerò qualcosa di Wallace e valuterò in prima persona come riverbera la sua scrittura.
    Intanto complimenti per il sito.
    Eletta

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