Gen 102012
 

Roma – L’impero del crimine, di Yari Selvetella, Newton Compton Editori, pp. 378, € 9.90
★★★★☆

Il segreto di questo autore risiede di certo in molti fattori, di cui l’appeal del tema è solo uno, e non il maggiore: certamente “Roma” e “crimine” sono due ingredienti importanti della sua ricetta, ma sarebbe una ricetta banale, servita e assaggiata talmente spesso da essere ormai insipida, da sola.
Ritengo invece che il successo di vendita dei libri di Selvetella abbia origine da altro. Prima di tutto dalla sua penna: una scrittura originale, una voce di personalità forte che si esprime su vari registri, dal giornalistico all’ironico, dallo storicistico all’elegiaco. E proprio su quest’ultimo vorrei soffermarmi: ci sono alcune pagine, soprattutto quelle dei capitoli in corsivo in cui l’autore entra più nell’espressione di un’opinione personale, un taglio critico, una visione dal suo sguardo, che sono davvero di grandissima letteratura. Così vicine per intensità e anima al migliore Pasolini, alla sua capacità letteraria mai scevra da una potenza espressiva che pare dettata in primo luogo dalla partecipazione umana, densa, alla materia raccontata.
In effetti Selvetella sta a Roma come Saviano è stato, in Gomorra, a Napoli. La stessa chiarezza di sguardo, la stessa conoscenza minuziosa della città, dei suoi pregi e difetti, la sua bellezza, a volte un po’ decadente, ma soprattutto la sua bruttezza. Roma qui c’è tutta, senza censure. Non c’è solo il centro o le periferie “fichette”, ma l’intero polpo urbano, con i suoi tentacoli grigi, abusivi, denaturalizzati, escresciuti, vomitati, brutti. Con il coraggio e la dignità di chi tenta di abitarci senza sentirsi una parafrasi di degrado sociale. In questo senso, Selvetella riesce in pieno a far sentire il lettore dentro la città, tutta la città, a farsi cruccio e sdegno del suo martirio, della vita condannata di chi ci abita, romani e non, italiani e non italiani. Lo sguardo di Yari abbraccia, e non fa sconti a nessuno: a ciascuno le proprie responsabilità.
E i misfatti di questa Roma impero del crimine non sono infatti i piccoli o i grandi delitti da cronaca, ma il sistema che c’è dietro, l’organizzazione del crimine, da quello meridionale di stampo mafioso a quello estero, dalla Cina alla Russia. E soprattutto il sistema politico che tiene e cementifica tutto questo… verbo non scelto a caso perché è proprio per il cemento che passano molti dei crimini della Capitale, che appunto in quanto tale si nutre di transazioni immobiliari che riciclano soldi e autoalimentano un mercato gonfio di nulla, di nuove macchine in coda su tangenziali e raccordi che nessuna opera cittadina riesce mai ad alleggerire.
L’ultima considerazione su questo volume è il piacere di sentirlo così ben documentato, solido, autorevole: c’è profumo di emeroteche e filmati d’epoca, di studi approfonditi e nottate passate in rete… Da questo mi piace cominciare a parlare con Yari, che ha onorato con la sua presenza la nostra ultima Slowfesta: come sei riuscito a impostare questo lavoro così gigantesco?
In effetti non sono una persona ordinata. Riconoscendomi questo limite ho impostato il lavoro d’archivio con molta attenzione. Accumulo faldoni, riempio cassetti, da anni: Roma è il tronco, ogni storia un ramo, ogni ramo un brulichio di fatti e persone.

Hai impostato un metodo preciso con fonti fisse, o per ogni storia hai seguito un filo diverso?
Cerco di cominciare sempre da quel che testimoni diretti o indiretti ricordano di un determinato evento, poi leggo i quotidiani dell’epoca: dapprima tutto quello che sta intorno alla notizia che mi interessa, dalle pubblicità alle pagine di politica e cultura. Poi c’è il lavoro dei cronisti: a volte è preziosissimo. Spesso la verità galleggia sopra le nostre teste per qualche ora, poi magari viene infilata in un tombino, risucchiata nella velocità. Il cronista è lì in quel momento, scrive subito e, in determinate condizioni, ci dice moltissimo. Poi libri, tv, radio, internet, tutto. Teorie, follie, dietrologie. Con gli anni si impara a riconoscere le cantonate, si scivola comunque, si limitano i danni; del resto ritengo che la costruzione della verità sia un processo collettivo, nel bene e nel male. Spero che il mio sia un contributo positivo.

Dai l’impressione di conoscere Roma come pochi romani la conoscono, ovvero non solo il quartiere dove sei nato/cresciuto, e il suo centro, ma proprio tutta, ogni quartiere, ogni periferia. È qualcosa che nasce dall’aver scritto questi libri, o al contrario li hai scritti proprio perché eri già immerso nel suo tessuto da prima?
La amo, la amo molto, tutto qui. E oggi, a quasi 36 anni, sono davvero preoccupato. Troppi filtri stanno saltando. Penso ad esempio alla politica. È praticamente sparita dalle periferie. Il “capolavoro” di una generazione di dirigenti politici nefasta, oggi più o meno sessantenni: un tratto di strada trafficata, un supermercato, una casa in un quartiere senza servizi, questa è la Roma vissuta da moltissimi romani. Bisognerà riprendersela, prima o poi, questa città.

Hai tratto qualche conclusione da questo lavoro, politica o morale? Nel senso, anche: confrontarti con questo livello di criminalità ti ha portato più a pensare che “bisogna darsi da fare” oppure che “è tutto più grande di noi” e non ci si può fare nulla?
Il futuro non è scritto e Roma è nostra. Di tutti. Si diventa romani solo per amore, per nient’altro. Per questo, in definitiva, rimane un gran bel posto.

Recensione ed intervista di Monica Mazzitelli

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