Ott 302014
 

Nicola Alesini: Maria’s Call (2013 Helikonia)

★★★★☆

Ascolta Nicola Alesini, dal vivo al Bottone Republic di Martignano, per gentile concessione dell’autore.

marias-call_1400352444Arrivato alla produzione del proprio 23° album, il sassofonista Nicola Alesini sembra scrivere il capitolo definitivo del proprio racconto musicale. Maturità compositiva ed intenso lirismo sono le caratteristiche principali di questo lavoro, articolato in 21 composizioni, frutto di improvvisazioni libere, senza tagli, sovraincisioni e maquillage sonoro. Dopo la prestigiosa collaborazione con David Sylvian, più recentemente quella con Claudio Lolli, dopo aver musicato Le Città Invisibili di Italo Calvino nello splendido Diomira, Alesini tocca uno degli apici della sua lunga carriera, in un album molto cinematografico, fatto di flash e quadri minimalisti che riportano alle atmosfere che solitamente è più facile incontrare all’ascolto di pianisti come Mertens, Nyman o Ludovico Einaudi. Un disco liquido, fragrante di aria salmastra, di onde, di cieli stellati e pensieri intimi e notturni in cui i loops elettronici ed i sax sviluppano un percorso onirico e visionario, che recentemente ha trovato una splendida collocazione spaziale grazie ad un concerto realizzato in collaborazione con Slowcult e Bottone Republic presso il Lago di Martignano, nel quale l’incontaminato ambiente circostante e la magia della riserva naturale hanno fatto da sfondo ad un live set unico e suggestivo. Un album importante di un musicista sincero e sensibile, come abbiamo potuto riscontrare, oltre che dal vivo, anche nel corso di una lunga intervista concessa in esclusiva a Slowcult. Eccone qui di seguito alcuni passaggi.

Partiamo dalla scoperta del tuo percorso musicale, qual è la tua storia, quali sono le tue influenze musicali.

Ho iniziato tardi a suonare, mi sono laureato in fisica teorica ed ho insegnato per 32 anni; i due mestieri per un lungo periodo si sono sovrapposti, poi c’è stata una dissolvenza incrociata, sono andato in pensione come insegnante ed ho continuato a fare solo il musicista, Avendo iniziato tardi, intorno ai trent’anni, ho sempre avuto il complesso dell’autodidatta, di quello che non ha iniziato da bambino. Addirittura qualcuno, a ragione, parlando di me ha coniato il termine ancient prodige, ovvero qualcuno che malgrado l’età riusciva ad essere originale e creativo. Questo mio complesso di inferiorità, per essere uno che legge malissimo la musica, mi ha fatto capire di aver bisogno di appoggiarmi ad altre forme espressive. Agli inizi si è trattato della danza, le prime performance con un contrabbassista e due danzatrici era costituito da repertorio quasi totalmente improvvisato. Le mie fonti di ispirazione venivano da alcuni vinili comprati da mio zio che mi ha introdotto ad un genere musicale, Third Stream Music, di cui erano portatori due musicisti, Joe Lewis e Gunther Schuller, uno nero e l’altro bianco, che a loro volta soffrivano il complesso d’inferiorità nei confronti della musica classica. L’ascolto forsennato di questa musica mi ha portato ad assimilare lo spirito che permeava artisti come il Modern Jazz Quartet che coniugava il jazz con la musica alta. Il mio ingresso nel mondo dell’improvvisazione avviene da lì, insieme alla scoperta rivelatrice di Wayne Shorter, altro caposaldo della mia cultura musicale e fonte di ispirazione.La ricerca di una strada che fosse mia doveva per forza tenere in considerazione i miei limiti, sia di lettura che tecnici, ma nella convinzione che un artista sia tale solo se è originale e se diventa riconoscibile, ed il mio stile nasce dal prolungato ascolto dei musicisti prima citati oltre al grosso apporto ricevuto dai miei insegnanti dell’epoca, Toni Armetta, che mi fece sentire per la prima volta Jan Garbarek nel 1980 e sopratutto Andrea Alberti, per ciò che riguarda la capacità di comunicazione e di espressione musicale. L’ascolto di Garbarek è stato folgorante, da lì ho capito che anche con i miei mezzi tecnici potevo raccontare delle storie, così come riusciva a lui. Lui partiva dalla musica popolare nordica, celtica, io potevo riuscire facendo uno studio della canzone italiana, mediterranea e napoletana.

Parlaci di questo ultimo Maria’s call, come nasce e cosa significa per te.

Alesini profiloDa dieci anni a questa parte ho iniziato a fare concerti da solo: una volta acquistata esperienza e sicurezza ed anche la consapevolezza di essere in grado di farlo senza il supporto di altri musicisti, o di danzatori o di immagini che potessero in qualche modo ‘mascherare’ o mimetizzare la musica. A partire da FdA (omaggio a De Andrè), ho cominciato quasi spontaneamente a sfrondare, a sottrarre, fino ad arrivare a concepire qualcosa che fosse il più essenziale possibile. Forse è il sogno di ogni musicista, chissà, il violinista sogna di fare un concerto per solo violino: così bravo e apprezzato da poter far sentire brani con un violino da solo. Quando mi sono ritrovato una cifra stilistica, un riconoscimento da critica e pubblico mi sono domandato a che servisse mettere tanta roba sui dischi e se non fosse sufficiente ridurre al minimo gli arrangiamenti e proporre quest’idea di musica, se vuoi più povera,quasi zen. Tutto può essere ricondotto alla partecipazione al Positano Mito Festival, in cui mi ritrovai a suonare da solo su una barca che attraversava di notte le acque della Costiera e navigava attorno alle isole delle Sirene, da cui il titolo della performance In cerca delle Sirene, ideato dal professor De Masi curatore della serata, che poi è diventato il titolo di una traccia di Maria’s call. Nel frattempo le mie collaborazioni teatrali con Maddalena Crippa e soprattutto con Maurizio Donadoni mi portavano a comporre, ad improvvisare musica che se non avessi inciso avrei rischiato di perdere. Si poneva a questo punto il quesito di come registrare questi brani; non essendo bravo con ProTools ed essendo capace di suonare solo in diretta, senza la possibilità di ‘taglia e incolla’ e quindi costringendomi a suonare ogni brano dall’inizio alla fine. Probabilmente questo mio handicap tecnico ha fatto sì che mi limitassi negli arrangiamenti e nel tappeto sonoro. Ho imparato a credere anche a questa disciplina, ovvero che le frasi musicali non fossero artefatte perchè costruite al computer. Lo considero un punto di arrivo proprio perchè mi sembra che il mio percorso musicale non potesse che sfociare in questo flusso sonoro, in questa emersione di emozioni dal mio personale percorso di navigazione. Il tutto nella consapevolezza, o anche nella presunzione, di riuscire, non senza sforzo, ad imbracciare il sax e comporre qualcosa che trasmetta sentimento e smuova l’animo dell’ascoltatore. Questo è quanto oggi mi sento di affermare: per raccontare qualcosa bisogna asciugare, bisogna imparare ad apprezzare una cosa piccola ma non per questo meno importante o significativa.

 

Recensione ed intervista di Fabrizio Forno

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