Dic 132010
 

Roma, Circolo degli Artisti, 5 dicembre 2010

★★★★½

Circa due anni fa, nel palinsesto notturno di La7, mi imbattei in una puntata de “la 25 a ora” con ospite il mitico Freak Antoni degli Skiantos che introduceva e commentava un documentario dedicato alla No-Wave newyorkese, “Kills your Idols” (edito in dvd dalla Raro Video). Tra i Suicide, Glen Branca, i Sonic Youth (vedi il titolo) fino agli eredi del sound della grande mela come i Liars o i Black Dice, trovavano posto anche gli Swans, capitanati dal leader Michael Gira. Conoscendo soltanto il loro splendido lavoro del 1991, “White Light from the Mouth of Infinity”, assimilabile per certi versi ai Dead Can Dance o addirittura ai Cure o a Nick Cave, il trovarmi davanti a dei reperti video che mostravano una band brutale e violenta come poche mi lasciò piuttosto spiazzato. Il giorno dopo, procuratomi “Children of God”, il capolavoro del 1987, la situazione mi si fece più chiara, ma per ritrovare la pesantezza e il pessimismo riscontrato in quelle poche immagini viste in televisione dovetti scavare fino agli esordi iniziali di “Filth” (1983) e “Cop” (1984). E oggi, nel 2010, gli Swans sembrano aver ripreso proprio da qui il loro percorso interrotto nel 1997, ritornando a quel suono che venne battezzato “boom music”, vere e proprie botte strumentali sulle quali Gira declama i suoi testi, ma con in più un’attenzione particolare a sonorità attualissime quali quelle di Sunn O))) e Neurosis.

La location romana del tour europeo, annunciato già da giugno, è stata spostata dal Piper al sempre fido Circolo degli Artisti. Quando arriviamo James Blackshaw ha già iniziato il suo set accompagnato unicamente da una splendida Guild acustica a dodici corde; riusciamo a sentire soltanto gli ultimi due brani, dei fingerpicking strumentali con accordature aperte, completamente debitrici al cosiddetto stile “American primitive guitar” creato da John Fahey, piuttosto che a songwriter come John Martyn e Bruce Cockburn; ma proprio l’assenza completa di una forma canzone rende alquanto ostico entrare nel mantra acustico di Blackshaw, in particolar modo perché l’artista per primo non sembra essere particolarmente coinvolto. Un vero peccato.

Durante il cambio, quando dalle casse del locale risuona di sottofondo un sassofono jazzato, dal palco ancora vuoto parte dalla sinistra un feedback di chitarra a nota fissa che si protrae per una decina di minuti fino a quando Phil Puleo prende posto alla sinistra della sua batteria e inizia a percuotere delicatamente il suo dulcimer. A intervalli di 5-6 minuti lo seguono a uno a uno gli altri componenti della band, prima il percussionista-tuttofare (un po’ come il mitico Jamie Muir dei King Crimson) Thor Harris che gli dà man forte alle campane tubolari di oldfieldiana memoria, poi dal chitarrista-slide Christoph Hahn (negli Swans dal 1991), dal bassista Chris Pravdica e infine dalle due chitarre di Michael Gira e Norman Westberg (l’altro membro storico della band). I sei musicisti innalzano un marasma sonoro che sfocia nella prima traccia del nuovo disco “My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky”; il tutto dura (orologio alla mano) 40 minuti e ci rendiamo conto di essere davanti a un’entità mostruosa che colpisce senza pietà il pubblico. La “boom music” si manifesta davanti ai nostri occhi in tutta la sua violenza. Tutti gli strumenti si trasformano in percussioni, anche i pochi accordi delle chitarre e del basso assumono una natura diversa, gli unici elementi melodici scaturiscono, oltre che dalle campane tubulari, dalle liriche di Gira, orfane ormai delle urla primitive degli esordi e incentrate invece soltanto sul registro basso, simile per certi versi a quello di Lou Reed e Iggy Pop, ma dotato di uno spirito tutto proprio. Spesso la voce del cantante rimane completamente sola, assumendo una funzione liturgica. Gira si trasforma in un predicatore, ma al contempo sembra sempre ben presente un’inconfondibile influenza blues, riscontrabile in particolar modo durante l’esecuzione di “Jim”.

Per tutto il concerto il monolite è sempre indissolubilmente unito, marcia e spazza via tutto ciò che incontra; solo in un’ occasione, durante l’inedito strumentale, si sdoppia, con la parte destra dei musicisti che continua a bussare inesorabilmente, mentre Gira, Harris e Hahn si staccano, cercano di ribellarsi e di rispondere all’incedere implacabile, per poi arrendersi e riassumere nuovamente il ritmo vitale della creatura. La scelta della scaletta in uno show del genere sembra non avere particolare importanza, ed è incentrata quasi del tutto sull’ultimo album; il brano più recente ripescato risale infatti al 1987, “Sex, God, Sex”, il solo caratterizzato da un cambio di accordo, oltre ad “Avatar”, che da sola sembra chiedere ai Neurosis di pagare accuratamente i debiti a chi di dovere. Tutti gli altri pezzi sono infatti costruiti su un unico terrificante accordo, preso con molta cura da Gira, che prima di posizionarsi sui tasti della chitarra la controlla attentamente, mostrandoci un musicista a un grado bassissimo di tecnica, ma superlativo per intensità e espressione.
Dopo quasi due ore la band lascia il palco per un brevissimo bis, “Little Mouth”, dove a un furore strumentale iniziale segue un ultima liturgia di Gira, declamata nel più completo silenzio del pubblico.
La messa è finita, andiamo in pace.

Recensione di Federico Forleo

Scaletta

No Words/No Thoughts
Your Property
Sex, God, Sex
Jim
Untitled Instrumental Song
I Crawled
Avatar
Eden Prison

Little Mouth

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