Apr 032012
 

Sycamore Age – Sycamore Age
(Santeria 2012)
★★★★★

Due estati fa ero ad Arezzo con Andrea Chimenti per una sera di chiacchiere, lucciole e molta musica. A un certo punto, quasi timidamente, mi chiede se voglio ascoltare un demo, un progetto a cui suo figlio Francesco sta lavorando con un amico e con Stefano Santoni dei Kiddy Car. Gli dico di sì, certo, e già dopo il primo pezzo mi cadono letteralmente le orecchie: “Ma questi sono una bomba!”.
Diciannove mesi dopo la voce di Francesco Chimenti, una voce di purissimo rock, autorevole, pazzesca, propulsiva, modulabile all’infinito, svergognata, galoppante, profonda come il mare, risuona nelle mie casse letta dal cd con il dorso colorato di caleidoscopiche farfalle dei Sycamore Age: la band di ormai sette elementi nata intorno a quel primo progetto creato insieme a Davide Andreoni a cui si era presto unito Stefano Santoni. Pochi mesi fa, da quando sono cominciate le esibizioni live, si sono aggiunti altri quattro perfetti elementi: Giovanni Ferretti, Samuel Angus Mc Gehee, Nicola Mondani e Franco Pratesi. Perfetti perché alla solidità granitica dei brani hanno saputo dare ampiezza di tinte e sfumature che ne hanno aumentato il respiro già profondo, fino al prodotto finito di oggi: Sycamore Age, omonimo cd di questa band incredibile. Un album sofisticato, spirituale, pieno di fantasmi e sogni, ossessioni, giochi infantili e rincorse, abissi e vette, dai Pink Floyd ai Radiohead passando attraverso Caravan, Gong e King Crimson, Who, Nick con Tim e Jeff, Jimi e Neil (solo per prenderne in pugno una minuscola manciata), un distillato a cui l’etichetta post-rock va ultrastretta: è una musica che riesce a raccogliere il lascito musicale degli ultimi migliori quarant’anni di musica rock/dark e contemporanea, sfrondandolo di tutto l’inutile, e nonostante ciò essendo originale, dirompente, difficile da descrivere. Sycamore Age è una rock opera, un concept album come non ne avevamo dai tempi d’oro del progressive, arricchita dal fatto che tutti i musicisti sono polistrumentisti mostruosamente bravi, spesso formati al conservatorio, come lo stesso Francesco Chimenti (violoncello) e sono quindi in grado di esprimere qualsiasi sfumatura attraverso la musica, che sia con una chitarra, un violino, una tromba, il theremin o un bouzouki, piuttosto che qualsiasi cosa di percuotibile, sfregabile, campionabile: da una grattugia agli utensili di cucina.
Fin troppo facile profetizzare un futuro di grandi cose a questo gruppo, che ancora prima di pubblicare il cd si era già imposto classificandosi secondo su cinquecento band provenienti da tutta Europa all’Upload Festival 2011 di Bolzano. E dato che in giuria c’era un entusiasta Paul Cheetham, direttore artistico del Popkomm (il più importante festival-incontro dell’industria musicale), sono stati invitati per una doppia esibizione a Berlino già lo scorso settembre. Perché questo lavoro è una spanna sopra, punto.

Francesco, come fa a essere così maturo questo disco, nonostante siate quasi tutti giovanissimi?

Sicuramente gran parte del merito è di Stefano che ha generosamente condiviso con noi la sua esperienza musicale e, perché no, anche di vita. Ciò ci ha portati a lavorare in completa sintonia e a confrontarci liberamente.
Quello che abbiamo sempre cercato di fare, è stato di svincolare le nostre idee da ogni preconcetto; così abbiamo lasciato che ogni brano nascesse e si sviluppasse nel modo più naturale possibile, che decidesse esso stesso la direzione da intraprendere.
Tutti questi elementi hanno sicuramente influenzato il sound del disco, dando come risultato un lavoro personale e creando una strana alchimia che ci ha trasportati nell’era del sicomoro.

Come mai la scelta di cantare in inglese? Commerciale o eufonica?

Consideriamo la lingua inglese come un modo per comunicare universalmente, un punto d’incontro che abbatta i confini geografici. Inoltre siamo stati sicuramente influenzati dagli ascolti che hanno caratterizzato la nostra vita, per la maggior parte anch’essi in lingua inglese. Non per questo però ci consideriamo esterofili, anzi cerchiamo di portare con noi ciò che più amiamo dell’arte italiana, facendoci ispirare sia dalla nostra musica popolare, sia da grandi nomi, come Claudio Monteverdi, Russolo, Ennio Morricone, Nino Rota, il Battiato di “Clic”, Paolo Conte, ecc. ecc.

Portare in giro un lavoro di esordio con una band di sette elementi in un paese dove è sempre più difficile suonare dal vivo è sconsideratezza o una sfida? O entrambe?

Capiamo perfettamente che, in questo momento storico, muoversi con una tale mole di persone e, aggiungo, di strumenti possa apparire come una sconsiderata sfida. In realtà, è forse più il frutto di una ingenua onestà intellettuale e, soprattutto, di una forma di devota generosità nei confronti del pubblico. Non siamo mai riusciti a digerire le bands che ripropongono dal vivo una mera e piatta ricapitolazione dei brani nella versione del disco. Quando ci si trova a dover tradurre un brano nato in studio nella versione live, a volte, perché funzioni davvero, può rendersi necessario un completo sconvolgimento dello stesso, una sorta di secondo parto e, se c’è bisogno di essere in sette per raggiungere il fine, poco importa. In fondo per noi il palco è una sorta di tempio sul quale deve consumarsi un rito, il rito in sé, questa è per noi l’unica cosa che conta.

Recensione ed intervista di Monica Mazzitelli

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