Giu 152014
 

Neil Young: A Letter Home Ed. Third Man Records (2014)

★★★½☆

neil-youngDi ritorno dalla crociata a favore della purezza e della qualità del suono nell’era mp3 che lo ha portato addirittura a sfidare il colosso monopolizzatore Apple con la diffusione di PONO, un lettore digitale di qualità elevata, ecco che Neil Young, fedele al suo personaggio, lancia l’ennesima provocazione e spiazza tutti. Si chiude dentro una cabina “Voice o Graph”, strumento datato 1940 che permetteva la registrazione in presa diretta su vinile e, con la complicità di quell’altro gran visionario di Jack White nel suo quartier generale di Nashville, partorisce “A Letter Home”. Una raccolta di cover selezionate tra i lavori dei songwriter più influenti di una certa America, tra i quali Phil Ochs, Tim Hardin, gli Everly Brothers, Bert Jansch, Gordon Lightfoot, ovviamente Bob Dylan, e anche i più recenti Willie Nelson e Bruce Springsteen. Il tutto introdotto da una lettera-monologo rivolta alla defunta madre. È un un viaggio all’indietro nel tempo, a discapito certo della qualità ma perfettamente in grado di ricreare un’atmosfera anni ‘30 dove anche la recente “My Hometown” di Springsteen si vena di malinconia e continua a parlarci di disoccupazione, ma collocandosi in un contesto da grande depressione. È un percorso emozionale che, riuscendo a superare il noise del crepitio nella registrazione, restituisce un’intimità col passato e con ciò che doveva essere il suono delle origini. Le tracce scelte da Young sono, per sua definizione, tra quelle che ha amato di più ed hanno cambiato la sua vita. E non possiamo che concordare con lui ascoltando la bellissima e devastante “Needle of Death” di Bert Jansch, straziante ode su un’overdose di eroina, sicuramente uno degli apici di questo lavoro, particolarmente sentita da Young essendo stato toccato nelle amicizie da questa tragedia (e che in passato lo ha portato già a comporre al riguardo “The Needle and the Damage Done”). L’omaggio a Tim Hardin con “A Reason to Believe” accompagnato da Jack White al pianoforte e introdotto da un dialogo/dedica alla madre, suona davvero come un vinile usurato che strada facendo però perde il crepitio a favore della melodia grazie anche all’utilizzo della fedele armonica. Il noise poi scompare del tutto sull’esecuzione di “If You Could Read My Mind” di Gordon Lightfoot dove la voce di Young suona più decisa e profonda che su qualsiasi altro brano del disco. È comunque un omaggio esplicito e diretto a tutti i suoi modelli ispiratori, sia d’annata che recenti. Cover che non vogliono eguagliare né tantomeno superare l’originale, ma semplicemente rendere omaggio ai grandi del passato. E forse proprio sull’esecuzione dei brani di Willie Nelson non riusciamo a trovare quell’empatia che invece esce fuori all’ascolto di pezzi ben più celebri quali ad esempio “Girl from the North Country” di un giovanissimo Bob Dylan. Da segnalare anche la suggestiva esecuzione di “I wonder if I care as Much” degli Everly Brothers, duettata vocalmente con White e alla quale Young affida la chiusura di questo interessante lavoro. Nei toni vintage anche la grafica dell’intero progetto, un box nero usurato dal tempo, racchiuso con nastro adesivo da imballaggio che contiene un CD, un DVD con riprese video delle sedute di registrazione, due diverse edizioni dell’album in vinile (una delle quali per audiofili, a 180 grammi e con transfer diretto dalla cabina di registrazione utilizzata per le incisioni), sette dischetti da 6 pollici in vinile chiaro (ognuno dei primi sei, contiene due brani dell’album, mentre il settimo propone una versione di “Blowin’ in the wind” di Bob Dylan non inclusa nella scaletta ufficiale), un libro formato da 32 pagine ed infine un codice per scaricare l’album in digitale ad alta qualità. Provocazione o contraddizione che sia, di sicuro è ciò che potevamo aspettarci da un personaggio come Neil Young: un esperimento perfettamente riuscito.

recensione di Claudia Giacinti

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