Set 232019
 

Il signor diavolo, di Pupi Avati  Con Gabriel Lo Bue, Chiara Caselli, Gianni Cavina, Lino Capolicchio, Alessandro Haber, Massimo Bonetti, Andrea Roncato, Alberto Rossi. Durata: 86 min, Italia 2019

★★★½☆

Il signor diavoloIl ritorno di Pupi Avati all’horror (thriller?) a distanza di dodici anni, rappresenta indubbiamente per il cinema italiano una notizia non di poco conto. E questa è una base da cui partire. Se poi il prodotto confezionato è di ottima qualità come Il Signor diavolo in questione, allora non gridiamo al miracolo (sarebbe un ossimoro…) ma usciamo sicuramente dalla sala con una qual certa soddisfazione. Pronti, via… e la prima scena non è per niente una passeggiata. Una culla, una neonata che vagisce, un bimbo si avvicina, si china e la sbrana. Più o meno. Questo il prologo dell’Avati versione 2019, che sceneggia uno script trascritto da un proprio romanzo e lo ambienta tra le paludi emiliane ed una Venezia cupa e sfuggente, narrando la storia di un emissario della DC, inviato dal partito in terra veneta, per far luce sul delitto di Emilio, un adolescente dalla dentatura deforme e dalla personalità disturbata che è stato assassinato da un coetaneo, tale Carlo, convinto che costui fosse “il diavolo”. La madre di Emilio, una donna altera e potente, ovviamente cerca di riabilitare la memoria del figlio, mettendosi di traverso e rischiando di far perdere un imponente bacino di voti alla stessa DC, che cerca le prove per confutare la storia in questione. La curia, sullo sfondo, manovra più o meno indirettamente i fili. Avati gioca in casa in questo film assai più vicino al trittico Casa dalle finestre che ridono, Zeder, Arcano incantatore che all’eccessivamente teorico Il Nascondiglio, partendo dall’ambientazione acquatica a lui tanto cara, spaziando tra paludi e lagune e rendendo alla perfezione l’atmosfera malsana della campagna omertosa (ma anche della città) che conosce a menadito, affidandosi ad amici quali Gianni Cavina, perfetto nel ruolo del sagrestano, e Lino Capolicchio, sotto le righe nel ruolo del parroco, ricorrendo agli effetti speciali dell’evergreen Sergio Stivaletti e chiudendo il cerchio con le musiche di Amedeo Tommasi, incredibilmente vicine nelle tematiche all’incipit della Casa e perfette nell’enfatizzare mugolii e pianti che si stagliano nel silenzio di una canonica che sembra in parte uscita dai racconti di E. T. A. Hoffman. Le tematiche care all’ottantenne Pupi sono presenti in toto: il girato in gran parte in esterni su luci naturali, l’ambiguità del rapporto secolare tra religione e superstizione, l’omertà cittadina ed il contorno dai tratti manichei disegnato sulle personalità degli ecclesiastici, oltre alla vera caratteristica del cinema di Avati, ossia la direzione degli attori al solito impeccabile, a partire dai già citati Cavina e Capolicchio, passando per una strepitosa Chiara Caselli nel ruolo della subdola madre di Emilio, fino al sobrio procuratore di Massimo Bonetti, con menzione d’obbligo per l’ottimo e smaliziato Lo Giudice, timido ed al tempo stesso risoluto nel voler smascherare un crimine che giocoforza lo vittimizzerà in primis. Innegabilmente, nella produzione avatiana qualche buco di sceneggiatura qua e là si avverte: il procuratore indaga ma nel prefinale se ne perdono le tracce, la stessa caratterizzazione di Emilio suona a tratti caricaturale, così come l’evoluzione del piccolo Carlo correlata a quella di un altro personaggio (…) che a metà pellicola lasciano intendere quale piega intraprenderanno i rispettivi percorsi nel prosieguo della storia, svelando un marciume che suonerà quasi annunciato ma che non stonerà con la chiosa conclusiva, simile ma diversa da quella della Casa che insinuava senza esplicitare, mentre nel Signor diavolo il destino si compie a favor di telecamera, offrendo allo spettatore un finale tutt’altro che dimenticabile. Figlio di un immaginario e di una sceneggiatura padroneggiata alla perfezione dal regista, Il Signor diavolo è un film che spazia tra thriller ed horror, preferendo inquietare invece che spaventare, affrontando di striscio tematiche scomode, strizzando l’occhio ad una pruriginosa e fumosa zoofilia e mostrandoci ostie calpestate durante il sacramento della comunione ed altrove ingoiate da un maiale, raccontando un’Italia anni ’50 legata a doppio filo alla territorializzazione della rappresentazione parlamentare che viene minacciata dal chiacchiericcio cittadino, palesando tutta la doppiezza di madre chiesa che da un lato osteggia l’operato del povero Momentè per autotutela (religiosa e politica) mentre dall’altro si muove in un limbo ipotetico dettato da un innaturale “non è vero ma ci credo”, ancorando la verità in fondo ad una buca e salvando capre e cavoli (propri) a spese degli altri. Chi si avvicina al Signor diavolo con la speranza di assistere a capolavori quali La casa dalle finestre che ridono o il sottovalutato Zeder uscirà dalla sala con la bocca dolceamara, ma probabilmente il cinefilo equilibrato realizzerà il proprio anacronismo e riuscirà a contestualizzare il prodotto inserendolo nell’anno di grazia 2019, non potendo fare a meno di apprezzare elementi quali la resa attoriale, i movimenti della macchina da presa, la prima e l’ultima scena (su tutte) e perché no, una genuinità autoriale compiuta e verace, la stessa che permette a Pupi Avati di restare sé stesso da oltre quarant’anni, e che ha consentito al maestro emiliano di esplorare una moltitudine di generi, gli stessi che quasi sempre finiscono per ricondurlo ad un substrato ancestrale e disturbante che egli stesso, con apparente giovialità, da sempre maschera benissimo. Questa, amici, si chiama coerenza.

Recensione di Fabrizio ’82

 

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