Ott 132014
 

Venezia, 27 agosto – 6 settembre 2014

 

VENEZIA 2014 063 (Copia)La Mostra della Laguna rimane certamente la manifestazione culturale più prestigiosa d’Italia, nel campo dell’Arte Cinematografica: il livello delle opere presentate continua ad essere particolarmente elevato, la mondanità è, rispetto agli altri anni, un po’ affievolita, ma sempre presente.

Quello che ci è apparso deludente, e sintomo della crisi che affligge il nostro paese, è la totale assenza delle librerie e videoteche di cinema d’autore che venivano esposte nell’ambito del “Movie Village”, quest’anno pressochè deserto. Il dato confortante, che abbiamo altresì rilevato, è la massiccia presenza di cinema italiano di qualità, come non avveniva da molti anni.

La rassegna è stata avviata da “Birdman” di Inarritu, molto applaudito, all’insegna di una Mostra contrassegnata da maggior impegno e minor glamour.

Abbiamo avuto modo di assistere alle ultime giornate di essa, e di presenziare, pertanto, a diversi eventi, tra cui quello attesissimo di “Pasolini” di Abel Ferrara, opera divisiva, ma intensa e vitale, ed anche all’evento della premiazione del regista svedese Andersson. Questo è il resoconto delle diverse opere che abbiamo avuto l’opportunità di vedere.

 

Pasolini, regia: Abel Ferrara, con William Defoe, Adriana Asti, Riccardo Scamarcio, Ninetto Davoli, Maria de Medeiros, Produzione: Belgio, Italia, Francia, 2014.

★★★★☆

VENEZIA 2014 074 (Copia)C’era molta attesa per il film di Abel Ferrara su Pasolini, uno dei grandi eventi della Mostra, la sala grande era gremita, e l’ingresso dell’Autore e degli interpreti è stato salutato da una vera ovazione.

Il film non delude le aspettative: si tratta di un’opera complessa, affascinante, aspra, ma intensa e appassionata, nella quale il regista si è calato profondamente nel personaggio di Pier Paolo Pasolini. Viene raccontato le ultime febbrili trentasei ore di vita del grande poeta, mescolando in qualche modo realtà documentata ed immaginazione poetica; l’interpretazione di Defoe è impressionante per adesione persino fisica al personaggio, di cui evidenzia l’intransigenza e la dolcezza del carattere.

Il film inizia con le terribili crude immagini di Salò o le centoventi giornate di Sodoma, la scandalosa opera che uscì dopo la sua morte. Le immagini di sadismo e di sottomissione dei protagonisti sono prodromi della descrizione dell’inferno pasoliniano, che il regista italoamericano, che probabilmente si sente un escluso, un “anormale” come il Poeta, vive profondamente a livello esistenziale. C’è anche un notevole sforzo filologico, Ferrara e Defoe, amici e complici, hanno voluto incontrare le persone che avevano conosciuto Pasolini, hanno letto le sue poesie e gli scritti politici, hanno voluto Ninetto Davoli tra gli interpreti. L’attore pasoliniano viene utilizzato in un ruolo stralunato, quello di Eduardo De Filippo, che era stato contattato da Pasolini poco prima di morire per realizzare quello che sarebbe stato il suo nuovo film, “Porno Teo Kolossal”, e se la cava con disinvoltura. Anche la quotidianità del poeta, le sue partite di calcio, le sue conversazioni familiari sono ben riproposte, con dovizia di particolari.

L’opera è cruda, controversa: la livida palude pasoliniana, la sua inquietudine esistenziale e sessuale viene mostrata a più riprese, senza sconti. Ne viene fuori un’opera visionaria, certamente frammentaria, a volte delirante, ma di profondo, inquietante spessore. Magistrale l’intervista apocalittica a Furio Colombo, poche ore prima della morte, quasi un presagio della fine. Intellettuale che non volle mai rinunciare all’impegno, intenso ed appassionato cantore della libertà, egli vide con anticipo l’omologazione al Consumismo delle menti e dei corpi. L’opera lo descrive con fervore, come portatore di una visionaria, lucida follia. Capace di riconoscere la tenebra che alberga nell’essere umano, e di trasfigurarla poeticamente, il sommo poeta andò incontro ad una fine tragica, forse per un inconsapevole “Cupio Dissolvi”. L’opera ha sconcertato molti, alla fine le ovazioni sono meno forti di quelle iniziali. Ma l’evento si è realizzato, e l’autenticità sofferta del regista e dell’attore protagonista (che avrebbe meritato un qualche riconoscimento) è fuori discussione. Un film per certi versi criptico, misterioso, dove la morte del poeta è descritta crudelmente, ma senza ipotesi di complotti; il vero mistero di Pier Paolo Pasolini è il suo sconfinato genio; un vero atto d’amore da parte del regista italoamericano, che si sente in simbiosi con la tragica figura del suo film, del quale fa proprio il motto: “Scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati un piacere”.

 

Good Kill, regia: Andrew Niccol, con Ethan Hawke, Zoe Kravitz, January Jones, Produzione: U.S.A., 2014

★★½☆☆

Good_Kill_Teaser_Poster_USA_01_midQuest’opera di Andrew Nicol rappresenta la crisi di coscienza di un pilota statunitense di droni: egli si trova proiettato, dopo anni di voli, a terra, vicino Las Vegas, davanti a una consolle simile ad una play station, con aria condizionata, davanti a dei computer che seguono per ore ed ore i presunti obiettivi in Afganistan. Un pulsante, 12 secondi, e l’obiettivo è centrato. Da pilota spericolato ad impiegato della morte, Tom entra in crisi, e ne risente anche il rapporto con la moglie. Le numerose vittime civili, considerati “danni collaterali” lo turbano, si rende conto che la vita umana è entrata ormai in un videogame. Nicol si è documentato, ha sentito molte testimonianze in campo militare. Il protagonista ha, certamente, un moto di ribellione nei confronti di questa guerra che sembra finta, ma crea vittime reali, ma il film lo risolve banalmente; per superare la crisi, e, conseguentemente, tornare dalla moglie, rifiutando le avances di una bella collega, anch’essa in crisi di coscienza, gli basterà, isolandosi dalla base, colpire il talebano che vede violentare e maltrattare la moglie ogni giorno. Un drone ad hoc, coscienza salvata. Peccato, perché il tema era abbastanza insolito e degno di approfondimento, e le immagini dei droni in azione accurate e sconvolgenti. Ora le guerre si combattono ad undicimila chilometri di distanza, comodamente seduti in poltrona. Il film è polemico con la C.I.A., che quando prende la guida dei piloti di droni appare molto meno attenta del Pentagono alle vittime civili.

 

Belluscone, una Storia Siciliana, regia: Franco Maresco, con Tatti Sanguineti, Vittorio sgarbi, Ficarra e Picone, Produzione: Italia, 2014.

★★★☆☆

belluscone-una-storia-siciliana-manifestoUn film fortemente allucinatorio, quasi onirico, dal taglio inquieto e surreale, questo “Belluscone, Una Storia Siciliana”, nel quale, attraverso la figura di Ciccio Mira, fervente sostenitore di Berlusconi, pirotecnico impresario di cantanti neomelodici, non privo, a suo modo, di una grottesca umanità, Franco Maresco ci offre un ritratto sconcertante della Sicilia di oggi, da sempre roccaforte del leader, che diventa la metafora della sconfitta di un intero popolo, prigioniero di una “cultura”, che sopravvive anche al declino politico del suo principale artefice. Entrano in scena i silenzi, le complicità, le omissioni, le mezze ammissioni, in una Palermo che appare come un “non luogo” incomprensibile, spettrale, dove i cantanti neomelodici gareggiano, si accapigliano, fanno pace. Il critico cinematografico Tatti Sanguineti insegue il regista Maresco, scomparso da mesi, che lascia la sua opera incompiuta. Il film sconcerta ed è realizzato con una immaginazione poetica e politica di rara potenza. Quasi un Virgilio che entra in un girone infernale, Sanguineti alla fine diventa “testimonial” della sconfitta politica ed umana dell’Autore. Il creatore di Cinico Tv va oltre la metafora berlusconiana, ci parla del passato e del presente del popolo italiano, dei suoi eterni ritorni, delle apparenti e momentanee ribellioni, della sua sudditanza ai potenti, che è culturale, in certo senso “prepolitica”. Attraverso la “danza dei morti” di Palermo vuole rappresentare un ritratto sconsolato della lugubre Italia di oggi. “Organizzeresti un concerto per ricordare il 19 luglio, anniversario della morte di Paolo Borsellino?”, viene chiesto all’impresario neomelodico. Silenzio imbarazzato. “La mafia?” Non so. In un locale da ballo viene chiesto a delle ragazze se ritengono che esistano politici collusi. Sicuramente no. Più di quanto possano dire le immagini, quest’opera vale per il “non detto”, per quanto si può intuire; essa è pervasa profondamente da una angoscia creativa volta a perseguire una verità sempre anelata, forse sfiorata, mai raggiunta.

 

I Nostri Ragazzi, regia: Ivano De Matteo, con Alessandro Gassman, Luigi Lo Cascio, Barbora Bobulova, Giovanna Mezzogiorno, Produzione: Italia, 2014.

★★½☆☆

I Nostri RagazziIn una Roma volutamente riconoscibile, Prati, Flaminio, il Gazometro, il Maxxi, si svolge questo lodevole film di Di Matteo, che presenta un tema interessante ed originale, pur non essendo retto da una adeguata sceneggiatura e, per di più, essendo dotato di un ritmo purtroppo piattamente televisivo.

La violenza che può esplodere all’improvviso, nella metropoli, senza una ragione, e che alberga nelle famiglie cosidette “bene”, non è un tema inedito, ma è trattato in modo insolito. Due fratelli, un avvocato cinico e carrierista, Massimo (Alessandro Gassman) ed un medico appassionato e progressista, Paolo (Luigi Lo Cascio) che si incontrano al ristorante una volta al mese, con le proprie mogli, Sofia (Barbora Bobulova) e Clara (Giovanna Mezzogiorno) che cordialmente si detestano, improvvisamente si trovano ad incrociare le proprie vite: l’avvocato deve difendere un poliziotto che ha ucciso un uomo a seguito di un banale diverbio automobilistico, il medico a curare il figlio di costui, paralizzato dalla medesima pallottola.

Il duro confronto “ideologico” dei due fratelli viene spezzato da un drammatico avvenimento: i loro rispettivi figli, Benedetta e Michele, dopo una festa, uccidono a calci, senza alcuna ragione, una barbona per strada. Inizialmente, la madre Clara (la Mezzogiorno) vuole ignorare il video che li inchioda, ma poi si deve arrendere all’evidenza.

Liberamente tratto dal romanzo di Herman Koch “La Cena”, l’opera di Di Matteo, presentata nella sezione “Giornate degli Autori”, presenta un dilemma morale di non poco conto: di fronte al dramma accaduto, bisogna proteggere i ragazzi o denunciarli come sarebbe giusto? Classico film a tesi, che crea dibattito e polemiche, con un finale aspro ed insolito, che ne riscatta molti difetti. Peccato che solamente la recitazione di Gassman sembri all’altezza dei contenuti: la sua sofferta, silente drammaticità risulta credibile, un po’ meno quella, piuttosto enfatica, degli altri.

 

The Look of Silence, regia: Joshua Oppenheimer, con Adi Rukum, Produzione: Danimarca, Finlandia, Indonesia, Norvegia, Gran Bretagna, 2014.

★★★½☆

lookJoshua Oppenheimer, coraggioso regista in sintonia etica con Werner Herzog, che lo aveva prodotto, un paio di anni fa aveva realizzato “The Act of Killing”, un documentario che descriveva, facendo parlare i paramilitari indonesiani, il massacro di più di un milione di oppositori al regime autoritario di Suharto, avvenuto nel 1965, una delle più spaventose e crudeli repressioni del secolo scorso. Non vi era ombra di pentimento, venivano descritte con sarcasmo e naturalezza le atrocità più terribili, dagli stessi protagonisti, autoproclamatisi eroi, per aver liberato l’Indonesia dai “comunisti”. Tutto ciò testimoniava la deformità ideologica di una nazione che aveva perso la memoria e la coscienza di sé stessa.

Questo “The Look of Silence” è lo sconvolgente, nobile controcanto all’altro film: si continua ad intervistare i massacratori, ma si evidenzia con maggior forza il dolore delle famiglie private dei propri cari. Adi, un optometrista, che ha avuto un fratello trucidato, cerca i suoi carnefici, li interroga, si sforza di carpire in essi un qualche barlume di umanità, di ripensamento. Non c’è alcuna coscienza in loro, essi si ritengono dalla parte della storia, la vita dei “comunisti” non valeva nulla, sono stati giustamente schiacciati come insetti (l’America ci ha insegnato ad odiare i comunisti). Chi viene messo alle strette, dice che se si scava troppo, quel genocidio potrebbe ripetersi. Adi ascolta attonito, consapevole di rischiare lui stesso per la propria incolumità, nei villaggi lacerati ove convivono le famiglie delle vittime e quelle deglii uccisori, ove la storia è stata mistificata, ove ogni senso di umanità è probabilmente perduto per sempre, ove l’odio coltivato per decenni ha trasformato molte persone in mostri inconsapevoli. A differenza che nel precedente film, che era stato in parte contestato, in quanto accusato di ambiguità, poiché i carnefici dominavano la scena, mimando apertamente ed in modo cinematografico le loro nefaste gesta, in quest’ultimo film il regista ponendo a confronto gli aguzzini ed Adi, familiare di una vittima, non può certamente essere accusato di alcun ammiccamento o tanto meno falsa conciliazione. Non rimane che il silenzio.

 

Senza Nessuna Pietà, regia: Michele Alaique, con Pierfrancesco Favino, Greta Scarano, Claudio Gioè, Adriano Giannini, Iris Peynado, Ninetto Davoli, Produzione: Italia, 2014.

★★★☆☆

SNP-manifesto-28x40cm-300dpi-rgbUn noir insolito, per la cinematografia italiana, asciutto, duro, per niente consolatorio. E’ la storia di un muratore che, totalmente controvoglia, nel tempo libero, recupera crediti per conto dello zio, utilizzando modalità violente e criminali, suo malgrado incastrato in una vita impostagli dai vincoli di parentela. Un giorno conosce una giovane prostituta, procurata per il cugino, che fa parte della gang dei “recuperatori”. Non sopportando di vederla maltrattata, la salva, uccidendo l’uomo, e fuggendo con essa. Tra i due si crea una forte assonanza, ambedue vorrebbero cambiare vita, e forse sentono che il loro incontro è l’unica opportunità. Lei è una donna molto bella, spontanea, assolutamente prigioniera di un ruolo impostole, e che subisce passivamente.

Ma la banda criminale è sulle loro tracce, ed il destino sarà ineluttabile. Film teso, realistico, un vero noir italiano, girato in una Roma periferica, tra il Laurentino ed i cantieri vicino al GRA, tra paesaggi devastati e vite devastate, assolutamente originale per l’Italia, che da molti anni non produce più film di “genere”, che non siano piattamente televisivi. Aleggia, nell’opera, un senso di morte e di ineluttabilità del destino che contribuiscono a creare un’aura di disagio ed apprensione. Favino è molto bravo, taciturno, essenziale, si cala mirabilmente nella parte, e gli altri attori, tra cui Ninetto Davoli (il boss di famiglia) fanno la loro parte. Alaique si dimostra più di una nuova promessa, la sua regia è sicura, autorevole, essenziale.

 

Anime Nere,  regia: Francesco Munzi, con Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Barbora Bobulova, Anna Ferruzzo, Prod. Italia/Francia, 2014

★★★★☆

anime-nere-locandina“Anime Nere” è probabilmente il film italiano di maggior spessore presentato alla Mostra del Cinema: si tratta di un’opera straordinaria, di grande impatto emotivo, narrativamente molto coerente, che rappresenta un reale segno di vitalità per il nostro cinema.

Ambientato nella Locride, la parte più cupa della Calabria, racconta la storia di una famiglia, cui il destino inesorabile richiede un terribile tributo di sangue. Tre fratelli, le loro diverse storie, le strade diverse da loro scelte: Luigi (il più giovane, interpretato da Marco Leonardi, commercia cocaina con l’Olanda, Rocco (Peppino Mazzullo) fa l’imprenditore edile a Milano, ed è sposato con Valeria (Barbora Bobulova), riciclando danaro illecito, mentre il primogenito Luciano (Fabrizio Ferracane) è rimasto in Calabria a lavorare i campi con la moglie Antonia (Anna Ferruzzo), per rimuovere, forse, il passato malavitoso della famiglia; il padre era morto, infatti, vittima di una cosca rivale. Tutto precipita quando il figlio Leo (Giuseppe Fumo), imbevuto di quell’humus violento e prevaricatore, si vendica di uno sgarbo frantumando le vetrine di un bar protetto da una cosca rivale. Ciò comporta il ritorno dei fratelli lontani, innescando un braccio di ferro che finirà tragicamente, coinvolgendo tutta la famiglia, in una spirale inesorabile di morte.

Cupo, violento, tetro persino nell’ambientazione, il film è segnato, in ogni suo fotogramma, dall’incombenza di un destino aspro e tragico, ineluttabile. I tentativi, da parte dei fratelli, di trasformare l’attività malavitosa secondo i canoni della modernità si rivelano utopistici, inattuabili. Una storia di ‘ndrangheta, lucida, agghiacciante che ha il tono ed il respiro della tragedia elisabettiana. Un trattato di antropologia, che studia l’impatto che un modo di vita apparentemente moderno ha sulle tradizioni immutabili, ataviche, ancestrali, del “Profondo Sud”. L’Autore, anch’egli di Africo, filma con mano sicura e felice, e crea un’atmosfera di tensione, di dolore e morte incombente, cui il cinema italiano, anche quello di qualità, non è affatto avvezzo. Il tutto con uno stile sobrio, con dialoghi ridotti all’essenziale, con la massima espressività dei volti di attori a dir poco superlativi. L’unica estranea a questo clima sembra Valeria, moglie nordica dell’imprenditore (anche lei misurata ed eccellente), che grida: “Io non sono come voi”, ma che, in realtà, per vivere in una splendida villa, non si è mai preoccupata di porre alcuna domanda al marito sulle sue attività criminali.

 

Burying The Ex:, regia: Joe Dante, con Anton Yelchin, Ashley Green, Alexandra Daddario, Oliver Cooper, Mindi Robinson, Prod. USA, 2014.

★★★☆☆

poster-1-burying-the-ex-posterJoe Dante rimane il genio dell’horror d’autore che conosciamo dai tempi di “Gremlins” e di “L’Ululato”; alla mostra si presenta con un film deliziosamente ironico, ma pieno di simboli. Max (Anton Yelchin), che gestisce un negozio di reliquie e trucchetti horror dal nome Bloody Mary’s, ed è appassionato di vecchi film, soprattutto quelli italiani di Bava e Freda (ignorati nel nostro paese, famosi in tutti il mondo, n.d.r.) ha una fidanzata, Evelyn (Ashley Green), vegana intransigente, ma soffocante e possessiva. Un giorno lei rovina tutti i magnifici manifesti horror con cui lui tappezza la casa; comprendendo che non è la donna per lui, Max decide di lasciarla: a tal fine la convoca in un parco, ma mentre lei, innamoratissima, si reca all’appuntamento, viene investita da un autobus e muore. Sia pur schoccato, Max allaccia una relazione con la bella Olivia (Alexandra Daddario), appassionata di horror, la sua vera anima gemella. Senonchè la defunta, grazie ad un incantesimo favorito da un pupazzetto satanico del negozio di Max, torna in vita e bussa alla porta, come se nulla fosse accaduto. Da qui una serie di gag, che vedono Max che tenta di prendere tempo per fuggire con Olivia, mentre Evelyn insiste per riprendere la relazione, anche sessuale, mentre comincia a decomporsi. Sarà Travis (Oliver Cooper), fratellastro di Max, ad aiutarlo, pagando un caro prezzo. Una bella commedia horror: Joe Dante, sulla falsariga di John Landis (Un Lupo Mannaro Americano a Londra) vuole dirci quanto sia difficile liberarsi dal nostro passato, e dalle relazioni sbagliate: lo fa in maniera esilarante, non tralasciando anche scene palesemente splatter, unendo, in modo molto felice, l’elemento comico e quello orrorifico. Le scenografie accurate, piene di riferimenti alla cultura “pop”, e di citazioni dei capolavori del genere, molto spesso lugubri, aiutano a creare una buona atmosfera. In fondo, il Regista ci vuole ironicamente rappresentare una semplice, scontata verità: attenzione al mostro che è comunque e sempre dentro di noi.

Una rassegna vitale e piena di belle opere: il Leone d’Oro 2014 è andato allo svedese “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” di Roy Andersson, che ha indugiato a lungo quasi incredulo con la statuetta in mano sul “red carpet”; in linea con il leone d’oro, quello d’argento è andato ad Andrej Konchalovsky per “Le notti bianche di un postino”, ed oltre al già citato “The look of silence”, anche l’Italia ha avuto due riconoscimenti, per le migliori interpretazioni femminile e maschile, ad Alba Rohrwacher e Adam Drive, protagonisti del film “Hungry Hearts” di Saverio Costanzo. La Calabria scespiriana di Munzi, “Anime Nere”, di cui sopra abbiamo riferito, avrebbe certamente meritato un premio e forse, a quanto sembra anche il ritratto ribelle ed anticonformista immaginato da Mario Martone per il Giacomo leopardi di “Il Giovane favoloso”. Il premio della giuria è andato a “Sivas” del turco Kaan Mujdeci.

La Mostra del Cinema di Venezia si riconferma come una magnifica vetrina del “film d’Autore”, ormai quasi bandito dalle sale. Ci auguriamo di poter vedere molte delle opere presentate (ne dubitiamo fortemente), e che venga confermata la ritrovata vitalità del nostro cinema.

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