Set 072014
 

Irvine Welsh. La vita sessuale del gemelle siamesi Guanda, 2014. 432 pag. 18.50 euro

★½☆☆☆

 

welshWelsh è un autore che, da sempre, punta sul ritmo, sullo slang e sull’esasperazione dei temi. Questo romanzo non fa eccezione. La differenza da molti altri dello stesso autore è nell’ambientazione americana e nella sostituzione del suo tema più ricorrente: dall’eroina è passato al cibo, l’ossessione che sta dilagando in ogni parte del mondo dove procurarsene non è difficile.

Lo spunto, soprattutto se viene da un autore che ha confidenza con il tema delle dipendenze, è senz’altro interessante e ricco di sfaccettature ma Welsh, pur avendo una buona idea di partenza non mi pare sia riuscito a cavarne fuori granché. Anche l’idea (ma sarebbe più opportuno chiamarla trovata) di secondo piano, e cioè la vicenda mediatica che dà il titolo al libro, da l’impressione di essere una sorta di rimasticatura di espedienti simili già letti in precedenza. A me è venuto subito in mente lo stesso processo messo su pagina da Mc Inerney ne “Le mille luci di New York”, quando alla vicenda centrale si affiancava l’attenzione ossessiva del protagonista verso una neonata, l’unica sopravvissuta di un disastro aereo, ma molti altri potrebbero essere gli esempi.

L’intera vicenda, per molti versi ben oltre il credibile, poteva (e forse doveva) essere approcciata in modo diverso. Tutti i temi, centrali secondari, sono affastellati in una sorta di catasta caotica di fatti, personaggi e spunti già ampiamente esplorati. Per rendere evidente quest’affermazione è sufficiente ripensare a quanto scrive Welsh sul cinismo dei media, sui politici tromboni e corrotti, sul sottobosco delle produzioni televisive, sulle tristissime gelosie professionali, sui rapporti conflittuali tra genitori e figli. Questo per il “ruoli” da comprimario. Per quelli da protagonista partecipano: l’ossessione per il cibo e la forma fisica, l’importanza di apparire dei “vincenti” e l’inevitabile menata sull’identità sessuale turbata e smarrita durante l’adolescenza. Alla fine della lettura si raggiunge la convinzione che tutto il romanzo sia frutto di una colpevole sciatteria e di una composizione meccanica e studiata, come se inserire quanti più argomenti possibile fosse necessario per toccare il maggior numero di corde possibili e avere l’opportunità di dire la propria (assolutamente non necessaria) opinione per bocca dei personaggi. E non basta. Ciò che stupisce, soprattutto da Welsh, è un lieto fine che pacifica tutto in maniera così banale da lasciare con mascella smottata. Certo, se in un romanzo si cercano ritmo, dialoghi al limite del brutale e montaggio senza tregua, questo romanzo non delude, ma da quel che mi è sembrato di capire stavolta Welsh desiderava essere e dare qualcosa in più, forse un romanzo più maturo, articolato e complesso. Purtroppo non credo ci sia riuscito.

John Updike. Sei ricco, Coniglio.Einaudi, 2014 (P.Ed. 1981) 574 pag. 22 euro.

★★★½☆

coniglioLa tetralogia del “Coniglio”, una sorta di saga in minore dell’uomo qualunque, di cui questo romanzo è il terzo “capitolo”, è di certo un punto di riferimento centrale per la narrativa americana degli ultimi decenni. E’ anche vero che questa affermazione potrebbe essere calzante per moltissime altre opere ( sono certo che ognuno avrebbe pronto il suo elenco) e che, di conseguenza, sia un assunto che non dica moltissimo. Meglio scendere nello specifico.

La qualità più evidente del romanzo è senz’altro la fluidità della scrittura, la capacità di Updike di comporre frasi rotonde, levigate e perfette, fornendo la netta impressione che ogni frase non avrebbe potuto essere scritta meglio. Molti autori scolpiscono le loro opere nel marmo, incidendole con la fatica di martello e scalpello, Updike, con la sua scrittura morbida e plastica, fa pensare alla lavorazione dell’argilla, alla delicatezza del tocco dei polpastrelli bagnati che creano curve morbide, senza l’ombra di uno spigolo.

Il tema centrale è quello di altre migliaia di romanzi, americani e non.

Coniglio è il più emblematico degli uomini comuni, medi o della strada o… come diavolo si vogliano chiamare i miliardi di esseri umani che vissero, vivono e vivranno la loro esistenza in un ambito ristretto, senza che la loro esistenza abbia influenza oltre la poco nutrita cerchia di amici e parenti. Con un simile materiale di partenza, è ovvio che la chiave per trarne un buon romanzo può essere soltanto la qualità della scrittura. Oltre alla qualità avrebbe giovato anche un po’ di profondità in più, ma probabilmente la sua mancanza è una scelta coerente con il personaggio centrale. In questo romanzo, ciò che si avverte fortemente è la mancanza di un vero e proprio intreccio, uno scheletro che mantenga il tutto in posizione eretta. A volte la narrazione tende a ripiegarsi su stessa senza trovare un sbocco, una direzione precisa. Tutto il testo è un’affascinante e minuziosa descrizione della quotidianità di un uomo come milioni di altri e questo, per molti lettori ormai assuefatti come tossicodipendenti alle trame stringenti, agli intrecci complessi e all’eliminazione dei cosiddetti tempi morti, ma ormai cronicamente incapaci di cogliere e apprezzare la qualità della scrittura, può essere un grande ostacolo.

Per tutti gli altri, quelli ancora non intossicati, questo è un romanzo da consigliare vivamente.

Marco Cubeddu. Con una bomba a mano sul cuore. Mondadori, 2014. 360 pag. 10 euro

★½☆☆☆

bombaSicuramente Cubeddu sa scrivere bene, quel che lascia dei dubbi su questo romanzo sono le scelte operate a monte. Da quel che si può comprendere, prima leggendo le note biografiche e poi il romanzo, sembra di capire che tutto il testo sia una sorta di autobiografia romanzata con dentro una noiosissima storia d’amore (che almeno per il finale non può essere autobiografica) e alcuni innesti pulp che sanno di stantio e riscaldato al microonde. I testi che si potrebbero citare ad esempi sono molti, ma per ciò che riguarda le avventure e gli incontri di una forma di lotta/boxe di cui Cubeddu racconta molto, la prima cosa che viene in mente, anche se è scritta molto meglio, è “Fight club” di Palahniuck.

L’idea della pseudobiografia, come praticamente ogni altra, non è debole in sé. Il problema più serio risiede nell’immediato richiamo alla mente di altre opere dall’impostazione simile e, quando questo accade, il confronto non regge neppure per mezzo round. Dopo il pirotecnico, indimenticabile e inarrivabile “Hey, tu, baby” di Mark Leyner e il recentissimo “Maschio, bianco, etero” di John Niven, cercare di misurarsi con la pseudobiografia di uno scrittore si rischia una figura pessima, correndo il concreto pericolo di mostrare i propri limiti in maniera evidente e quasi imbarazzante. Come ho scritto all’inizio, Cubeddu sa scrivere, ma per riuscire a capire cosa sia in grado di fare occorrerà attendere una storia che si più pensata, una storia veramente originale che lo lasci libero e lo metta nella condizione di creare mondi.

Di immaginare, come scrive Irving in “Ultima notte a Twisted River”

Nick Pizzolatto. Galveston. Oscar Mondadori, 2014. 266 pag. 10 euro.

★☆☆☆☆

galvestonHo acquistato questo libro perché incuriosito dall’autore, ora molto noto per aver scritto e prodotto la serie televisiva “True detective” di cui ho sentito parlare molto bene. Forse potevo evitare. “Galveston” è un giallaccio hard boiled (chiedo scusa a chi non conosce l’inglese ma non c’è traduzione) che si mina la suo interno con una struttura autolesionista, con anticlimax che lo devastano senza la minima pietà.

Posso capire che affrontando un giallo, genere ormai spolpato e esplorato in ogni recesso, un autore cerchi in ogni modo di concretizzare la strafamosa frase “famolo strano”, ma così mi pare troppo. Il romanzo inizia sparato come un razzo, in poche pagine ci fa vedere un uomo a cui viene diagnosticato un cancro, un agguato con sparatoria degno di un film di Michel Mann, fa salire la tensione raccontando di due personaggi in fuga, (uno è quello minato dal cancro, l’altra una prostituta appena maggiorenne) e poi, di punto in bianco, iniziando un nuovo capitolo, fa vedere lo stesso personaggio, quello che dovrebbe essere morto da un pezzo, dopo vent’anni più o meno sano e salvo.

E poi continua ad alternare flashback al presente senza che il passato, ovviamente, riesca a far minimamente presa e senza poter evitare che il presente non venga percepito come una presa in giro di quanto scritto nei flashback in cui il protagonista pensa di avere pochi mesi davanti a sé.

Ma che gioco è? Sono io che non capisco più come si scrive un romanzo di genere o c’è soltanto qualcosa che mi sfugge? Francamente non lo so, ma una cosa è sicura: un appassionato di gialli, quelli a cui piace farsi prendere dallo sviluppo della storia e continuare fino alla fine con il voltapagina compulsivo rimarrà profondamente deluso. E chi invece vuole e riesce apprezzare anche altri aspetti di un romanzo… rimarrà ugualmente deluso.

In sintesi non posso far altro che ripetermi: una delusione.

Giuseppe Aloe. Lo splendore dei discorsi. Giulio Perrone, 2010. 256 pag. 15 euro.

★★★★☆

aloeQuesto romanzo di Giuseppe Aloe ha la grande e rarissima qualità di lasciarsi guardare, leggere e apprezzare da molte diverse angolazioni. E da tutte quelle che si scelgono, in cui si incappa quasi casualmente o che il testo suggerisce con discrezione, ciò che si vede una particolare bellezza.

Questa caleidoscopica qualità è probabilmente originata dal personaggio centrale che domina le pagine ed è anche l’io narrante, un uomo che racchiude in sé tutte le positività e le negatività dell’essere umano. Quest’uomo passa dall’inguaribile lutto per la perdita di una figlia alla lucidità quasi criminale necessaria a mettere fine allo strazio della moglie per arrivare ad essere un sicario di un’organizzazione mafiosa e, ancora dopo, finalmente, giungere ad essere un uomo pacificato con se stesso e con gli altri.

Questi continui spostamenti della prospettiva lasciano ad Aloe lo spazio e il modo per approcciare il personaggio come fossero molti personaggi diversi, regalando al lettore la possibilità di godere di una sorta di “pluriromanzo” che ruota intorno ad un “multipersonaggio”.

Moltissime sono le cose che si potrebbero scrivere sulle diverse fasi della vita di questo particolarissimo essere umano e che potrebbero dare maggiore consistenza a quanto sto scrivendo ora, ma il timore di guastare la lettura mi impedisce di scendere in particolari più minuti.

Le pagine degne di essere lette e rilette sono molte, ma le quelle migliori sono senza dubbio quelle finali. In questo pugno di pagine, che in modo molto emotivo e senza indulgenza riassumono le vicende del protagonista affrontandole esclusivamente dal punto di vista emotivo, la capacita di Aloe emerge con estrema chiarezza. Queste pagine godono di una scrittura controllata e, contemporaneamente, lirica, con un deciso sapore che, pur rischiando di apparire eccessivo, definirei cosmico e universale.

Un finale lirico e intenso come raramente capita di leggere, una carezza al contempo brusca e dolcissima su tutte le anime dolenti di questo mondo.

Rubrica a cura di Daniele Borghi

  2 Responses to “Macchie d’inchiostro: Letti nel mese di Agosto 2014”

  1. Interessante, ho preso nota soprattutto dell’ultimo.
    Peccato che manchino i nomi dei traduttori…

  2. Sempre stimolanti le tue recensioni,siasullanarrativa che sui films. Andrebbero raccolte in un quaderno. Già sto cominciando a farlo. Me le rileggerò con calma, vedrò i films, divorerò i libri da te consigliati
    Grazie, Daniela

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