Giu 142012
 

Abbiamo raggiunto Manuel Agnelli in occasione della data romana del ‘Padania Tour’;  ecco una sintesi di quanto ci ha raccontato. La versione integrale dell’intervista è ascoltabile qui

D: Manuel, questo è il primo tour di “Padania”, il vostro ultimo album, che ha avuto già parecchi riscontri sia dalla critica sia dal pubblico, ed è stato al secondo posto della classifica proprio al debutto. Quindi un album, credo, che vi stia dando soddisfazioni, un album un po’ particolare e che soprattutto fa molto riflettere.

R: Sì, è un album molto difficile musicalmente, è inutile nasconderlo. È l’album che volevamo fare in questo momento, è l’album che poi ci è venuto anche abbastanza naturalmente. E siamo molto orgogliosi del fatto che stia piacendo tanto, nonostante, appunto, non sia proprio un album immediato, per cui necessiti di più ascolti; e poi è molto vario, quindi chiaramente si presta anche a diverse interpretazioni. Siamo veramente molto contenti. Non ce l’aspettavamo un risultato del genere, perché crediamo che gli Afterhours abbiano tanti vantaggi perché esistono da tanti anni e hanno un pubblico stabilissimo, però nello stesso tempo esistere da tanti anni può avere anche degli svantaggi: la gente può prendere i dischi che escono come l’ennesimo disco prodotto da un progetto che esiste da molto tempo. In questo caso non è successo, quindi grazie alla gente, grazie anche agli addetti ai lavori. E forse abbiamo anche avuto un pizzico di fortuna.

D: Volevo tornare sui testi, e su queste riflessioni che ci fate fare attraverso questi testi, perché insomma, si riflette molto sul nostro essere, sul nostro voler cambiare il mondo, riuscirci, non riuscirci, a volte tradire noi stessi.

R: Sì, è quello che abbiamo visto in giro, è quello che sentiamo noi, sono i desideri che avremmo anche noi, ed è quello che guardandoci intorno sentiamo nella gente, Per cui ci sembrava di rappresentare non tanto la realtà, ma almeno la realtà che vediamo noi. E crediamo che il musicista in questo momento debba avere un po’ questo ruolo, quello di fare informazione sulla realtà più quotidiana, al di là dei grossi eventi, al di là di quello che succede in politica o nel mondo in generale, ma proprio sul quotidiano: cose che magari non finiscono al telegiornale o sui giornali, ma cose che la gente ha bisogno di sentire non solo per provare conforto, ma anche per non sentirsi completamente dissociata da quello che le succede intorno, per sentire che c’è gente che la pensa nello stesso modo e quindi per sentirsi anche legittimati a sentirsi male in alcune situazioni, perché fino a qualche anno fa sembrava che non fosse neppure permesso potersi sentire male. Io credo che in un momento come questo stia venendo fuori tantissima verità nella gente, che le sensazioni siano sempre meno filtrate e che ci sia bisogno dello stesso tipo di approccio anche da parte dei musicisti, degli artisti in generale.

D: È verissimo. Voi avete detto che “Padania” è “uno stato mentale”, in qualche modo. In che senso?

R: Non esiste la Padania come stato vero e proprio e neanche come territorio geografico ben definito. “Padania” è il nome che abbiamo scelto noi per dare una personalità a questa situazione, a questo affresco che volevamo tracciare su quello che sta succedendo a noi e intorno a noi, quello che sta succedendo nella società, quello che sta succedendo dentro le persone. Sicuramente “Padania” ha dei rimandi abbastanza precisi, per cui vedi subito questa terra desolata, in mezzo alla nebbia, in mezzo al niente, dove la gente non fa altro che alzarsi la mattina per andare a lavorare, produrre e sopravvivere. “Padania” è un po’ l’emblema di questo, di gente che non vive veramente, ma che è costretta a sopravvivere, a pensare soltanto come poter sbarcare il lunario, invece che inventarsi una vita vera, una vita attiva, propositiva. “Padania” è un po’ il simbolo di cose che in realtà appartengono a tutta l’Italia, e probabilmente anche non soltanto all’Italia, e proprio come tutti i simboli ha una personalità precisa, e quindi chiamare così il disco poteva identificarlo con una situazione che c’è nel nord Italia soprattutto, ma non è necessariamente una situazione che viviamo soltanto qui.

D: Assolutamente, magari nemmeno solo in Italia. A proposito di estero, voi siete anche reduci da una bella esperienza negli Stati Uniti. Naturalmente non è la prima volta che andate oltreoceano, ma che cosa vi ha lasciato questa ulteriore esperienza? Magari confrontando la situazione italiana vi ha portato a qualche nuova idea: intanto voi avete deciso la strada della completa autoproduzione, questo già da prima. Mi chiedevo se avete qualche riflessione dopo questa ennesima esperienza.

R: Mah, sì, tante. A livello sociale non sono poi così distanti da noi, hanno gli stessi problemi che abbiamo noi e fanno le stesse riflessioni che facciamo noi sullo stato sociale, lo stato della cultura, l’economia. Soprattutto nel mezzo degli Stati Uniti, che è il territorio che abbiamo attraversato noi le analogie sono veramente tantissime. Dal punto di vista strettamente musicale una delle cose che a me è sempre piaciuta della musica americana è il fatto che non dovesse per forza raccontare delle storie quando deve descrivere delle situazioni. Loro sono molto bravi a cogliere le emozioni e la tensione che ci sono nella musica e soprattutto nel rock, e sono molto convinti che il rock, la musica, ma anche le parole che vengono usate all’interno della musica, debbano sostanzialmente evocare delle sensazioni, non per forza raccontarle. Noi abbiamo una tradizione molto diversa che è quella cantautorale, forse più letteraria da un certo punto di vista, anche se a me non piace identificarla così perché poi non è vero, però è una tradizione che racconta, e quindi siamo più abituati a raccontare. Noi abbiamo sempre cercato di scrivere dei testi e di fare dei pezzi puntando più sull’evocare delle emozioni piuttosto che sul raccontarle. Stando là però ci è venuto un po’ più naturale fare questo disco, che in realtà non racconta una storia vera e propria, ma racconta una serie di tensioni, una serie di emozioni, e cerca proprio di sottolinearle, di amplificarle, di trasmetterle.

D: Era importante suonare insieme agli Afghan Whigs [il 7 giugno a Roma, ndr] perché loro festeggiano questa reunion e 25 anni di carriera. Voi poi avete spesso collaborato con loro, con Greg Dulli soprattutto.

R: Sì, Greg è un amico, abbiamo fatto tantissimi concerti insieme in altre situazioni. È chiaro che ci tenevo tantissimo che per la data di Roma loro suonassero con noi e chiaramente le Capannelle [l’Ippodromo delle Capannelle, dove si svolge il festival Rock in Roma, e dove era inizialmente previsto il concerto, poi spostato all’Atlantico Live, in quanto il palco del Rock in Roma non era ancora pronto, ndr] era una situazione molto molto più comoda, però cosa dobbiamo fare?

D: Quest’anno Roma vi ha dato un po’ di sfortuna. Anche al Primo Maggio non siamo riusciti a vedervi. Che cosa sta succedendo?

R: Io non parlerei di sfortuna in questi casi perché quello del Primo Maggio è un altro esempio di disorganizzazione all’italiana, per cui non è proprio sfortuna. La sfortuna è quando le cose sono fatte al meglio e non vanno bene. In quel caso lì si potevano fare meglio.

D: E poi mi si dice, però è tutto in forse, che si paventa magari anche un’altra data.

R: Guarda, il problema purtroppo è sempre il tempo, il fatto di avere il tempo per poterla organizzare, perché sappiamo che l’Atlantico non può contenere tutta la gente che sarebbe venuta alle Capannelle, però con lo spostamento di data non è detto che tutti poi arrivino, quindi in realtà dobbiamo capire quanta richiesta c’è e soprattutto se facciamo in tempo poi a mettere in piedi un’altra data perché non è così semplice, non basta dire “suoniamo anche domani”. Ci sono una serie di permessi, l’organizzazione logistica, etc., che stiamo già cercando di mettere in piedi e quindi non siamo sicuri di poterlo fare. È chiaro che la volontà ci sarebbe eccome.

D: Noi speriamo. Grazie mille!

Intervista di Prisca Civitenga
Editing di Andrea Carletti e Federico Forleo
Foto di Magister in occasione del concerto al Tendastisce di Roma del 8 maggio 2008

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