Mag 052013
 

★★★☆☆

Quando una band che ha suscitato negli ultimi 12 anni un certo scalpore come gli Strokes, band che ha causato la nascita di un “nuovo” genere (il garage rock revival, le virgolette sono obbligatorie e consequenziali alla stessa definizione) e di decine e decine di band che hanno trovato la loro strada grazie a loro, pubblica in streaming le canzoni del nuovo disco ancora non uscito nei negozi, centinaia di appassionati si fiondano immediatamente a scrivere la loro opinione sui loro blog. Ma io noooooooo! Io ho preferito aspettare l’uscita ufficiale prima di scrivere qualunque cosa, e sebbene non cambi proprio nulla nella musica che è possibile ascoltare sul disco e quella che si poteva ascoltare nell’anticipazione su Pitchfork (non più disponibile, ma molti si sono affrettati a postare subito le stesse canzoni su Youtube e lì si possono trovare), aver aspettato l’uscita vera e propria del disco prima di scrivere mi ha rischiarato un pò di più la mente rispetto a questo disco.
Albert Hammond Jr. disse a suo padre l’anno scorso, Albert Hammond sr.: “Pà, stiamo facendo cose magnifiche, non posso crederci”.

Di certo siamo davanti a un album particolare nella loro discografia, che porta molto avanti il discorso cominciato 2 anni fa con Angles. Troverete centinaia di recensioni che dicono che gli Strokes di una volta sono finiti e qui non c’è nient’altro che un seguito di Angles che ripercorre la stessa scia. La cosa è secondo me vera solo in parte, perché è vero che rispetto ai primi due dischi siamo in un altro universo, ma ci sono due importanti note da fare: su diversi pezzi le chitarre ruggiscono in maniera dritta e aggressiva quasi come una volta, un aspetto che su Angles sembrava essere quasi venuto meno; l’aggiunta di nuove esperienze sonore che era avvenuta in Angles apparve lì una semplice passeggiata fatta tanto per tentare qualcosa di nuovo, qui c’è invece una cura maniacale di ogni singolo particolare. Pensiamo per esempio a One Way Trigger, il pezzo che ha causato la rivolta internazionale quando è uscito, per il suo synth così insistente e che ora trova nuova gloria guardandolo nel contesto dell’intero disco, forse siamo davanti al primo pezzo garage synth rock della storia; pensiamo alla cura del tappeto sonoro di Chances; pensiamo alla maniera molto delicata con cui si intrecciano gli arpeggi elettronici su 80’s Comedown Machine (il capolavoro dell’album, un pezzo che nella sua lentezza introspettiva mi ha persino ricordato i Radiohead); pensiamo a come il synth si accompagna in maniera sincronica al canto su Partners in Crime. Accorgimenti che su Angles non esistevano, e il risultato è che questo sound può certamente convincere molto di più l’ascoltatore rispetto al disco precedente, i cui pezzi non sembravano così pensati ed elaborati come quelli di Comedown Machine. E c’è una delicatezza, nella composizione e nell’arrangiamento di una parte di questi pezzi, e nella voce di Julian Casablancas, che è totalmente nuova per questa band.
Di certo il marchio ’80, in questi pezzi di cui abbiamo parlato finora, è evidentissima: ormai Casablancas non sembra pensare ad altro dal suo disco solista del 2009, Phrazes For The Young, in poi (non sono però molto d’accordo che questo Comedown Machine ricalchi quel disco, come scrivono in giro, è evidente che lì ci fu una mano elettronica molto più pesante). Addirittura si è pensato persino di omaggiare la figura più emblematica di quegli anni, Michael Jackson, con il primo pezzo del disco, Tap Out (introdotta da una schizofrenica chitarra che potrebbe far pensare di tutto, ma non quello che sta arrivando): ascoltandolo si potrebbe immaginare un tipica discoteca di quegli anni dove la gente si esibiva nelle più strambe imitazioni del Re del Pop. Il funk di Welcome to Japan (che ricorda i Red Hot Chili Peppers più docili di By the Way), e pezzi come Slow Animals e Happy Ending vanno nella stessa direzione. Non possiamo dire ancora se il futuro degli Strokes è questo, ma per ora il punto raggiunto ci dice che è la maggior parte del loro presente.
Ci sono anche pezzi che fanno da cerniera con i tempi andati: All The Time, che serve a tenere il punto sul sound Strokes dei primi tre dischi; 50 50, un pezzo quasi da Iggy Pop & The Stooges con cui si vogliono omaggiare gli ascolti musicali che ispirarono il primo disco. E poi una chicca come Call It Fate Call It Karma, collocato come pezzo finale per distinguerlo dagli altri per il suo particolarissimo sound da Sud America degli anni ’30, un pezzo dichiaratamente ispirato al progetto solista di Fab Moretti, i Little Joy.
Tutte le osservazioni fatte finora potrebbero farci concludere che più di ogni altro disco degli Strokes, Comedown Machine sintetizza il significato ambiguo della parola inglese “stroke”, che in italiano si può tradurre sia con “colpo” che con “carezza”: alcune canzoni forti come un colpo (All The Time, 50 50, Partners in Crime, One Way Trigger) altre dolci come una carezza (80’s Comedown Machine, Chances, Call It Fate Call It Karma). Non che già in altri dischi non ci fossero pezzi più o meno forti, però qui si hanno estremi sia in un senso che nell’altro.
In conclusione, un disco che piacevole da ascoltare. Nessuno dei dischi successivi a Is This It è stato forse altrettanto esaltante, ma nulla può impedire di pensare che il prossimo disco li proietti verso qualcosa di ancora più ardito, a maggior ragione un buon disco come questo.

Recensione di Christian Dalenz

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