Mar 112009
 

IL CAPRICCIO DI CESARE PAVESE, “ I DIALOGHI CON LEUCO’ “ – TEATRO VASCELLO, 28 FEBBRAIO – 15 MARZO

★★★½☆

Nel 1947, tre anni prima di decidere di porre fine ad un’esistenza che gli era divenuta insopportabile, Cesare Pavese pubblicava la sua opera più sofferta, più meditata, più coraggiosa, l’opera che più di tutte avrebbe amato. Il narratore realista per eccellenza abbandonava i paesaggi americano-piemontesi per dedicare un romanzo alla sua passione più grande: la mitologia greco-latina. Nascevano così i “Dialoghi con Leucò”, 27 brevi conversazioni a due in cui, attraverso i dialoghi fra personaggi dell’epos e del mito e una fitta trama di simboli, Pavese affrontava tematiche eterne e pregnanti della condizione umana: vita e morte, amore e abbandono, passione, dolore, rimpianto, destino. Ogni dialogo poneva una domanda sul senso della vita e sull’ineluttabilità degli eventi.
A detta dello stesso Pavese si trattava di “un lusso che da un pezzo meditavo di prendermi”. Così l’opera veniva presentata dall’autore nei suoi Diari: “Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso”. Ma in quegli anni di dominante neorealismo, in cui la letteratura imponeva la trattazione di temi legati all’attualità, alle difficoltà materiali di un’esistenza condotta durante e dopo la guerra, i Dialoghi costituivano un gap notevole, un ritorno al passato che non fu immediatamente compreso. Essi finirono con l’essere considerati il capriccio di uno degli autori più dediti a raccontare la difficile situazione economica e sociale dell’Italia di quegli anni, e Pavese fu emarginato dalla scena culturale. Il suo riscatto sarebbe cominciato solo nel ’50, con l’assegnazione del Premio Strega, riconoscimento che avrebbe dato inizio al processo di complessiva riconsiderazione delle sue opere, “dialoghetti” (come egli stesso li chiamava) compresi.
La compagnia “La Fabbrica dell’Attore”, fondata da Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann, che è fra i 5 protagonisti, assieme a Sara Borsarelli, Alberto Caramel, Gaia Benassi e Graziano Piazza (autore anche delle sculture che compaiono in scena e che dal 18 marzo saranno esposte presso la Galleria Art’s Moments di via Belisario 11), ha selezionato, per la messa in scena al Teatro Vascello, 7 di questi “dialoghetti”: l’Isola, I Ciechi, Schiuma d’onda, Il Fiore, La Vigna, L’inconsolabile e Il Mistero.
I protagonisti di tali dialoghi sono personaggi sempre diversi, noti (come Odisseo e Calipso, Edipo e Tiresia, Saffo, Orfeo, Dioniso) o meno (Britomarti, Leucotea).
Anche i motivi affrontati sono diversi: nell’Isola prevale il tema del rimpianto verso la propria terra e dell’ineluttabilità della propria sorte, con Odisseo che non può sfuggire alla sua natura di peregrino del mare; nei Ciechi domina invece la visione negativa, presentataci da Tiresia, di una divinità cinica e malvagia, che disprezza gli esseri mortali (“Non ci sono cose vili se non per gli dèi”).
Il tema della ferocia riservata dalla divinità a quegli uomini che osano superare i propri limiti è ripreso nel Fiore, in cui Eros e Thanatos sono rappresentati come due personaggi comuni, una sorta di comari intente a piangere sulla tomba di Iacinto e a lamentarsi della crudeltà di quel Dio che l’ha condotto alla fine.
Negli altri dialoghi temi dominanti sono invece l’amore e il fato, indissolubilmente legati: in Schiuma d’onda la passione ossessiva di Saffo, che l’ha portata al suicidio, si scontra con il rifiuto di essere posseduta da alcun uomo della ninfa Britomarti.
Una lettura molto originale viene data invece della figura dell’Inconsolabile Orfeo, che, tornando dall’Ade, si volta indietro prima di raggiungere la luce del sole, perdendo così per sempre la sua Euridice. A questo gesto inspiegabile viene data una motivazione egoistica: Orfeo negli Inferi cercava “non più lei ma me stesso. […] Non si cerca che questo”.
Gli Dèi, figure terribili e disumane, appaiono in maniera positiva solo nel dialogo che chiude lo spettacolo, Il Mistero, in cui Demetra e Bacco, incuriositi dai mortali ma allo stesso tempo nauseati dal sangue che gli uomini fanno scorrere nei riti a loro dedicati, decidono di dare un senso alla morte: istruiranno gli uomini attraverso il racconto di uno di loro, che dirà di aver vinto la morte e mostrerà agli uomini l’Eterno del grano e della vite, del pane e del vino, finché i mortali non vedranno nel pane e nel vino nuovamente carne e sangue, e “carne e sangue gronderanno, non più per placare la morte, ma per raggiungere l’eterno che li aspetta.”
Scegliendo Il Mistero come chiusura dello spettacolo, Manuela Kustermann fornisce al pubblico un quadro compiuto, che inizia con il mito greco ma si conclude con le prime avvisaglie di filosofia cristiana. Assistiamo così alla riscoperta di quel sostrato culturale comune che è il mito, con la sua capacità di idealizzare e rendere eterne le esperienze più intime dell’uomo. Il mito diventa un mezzo puramente espressivo, che dà voce ad angosce universali. I personaggi, che nell’opera di Pavese vengono costruiti attraverso il solo dialogo (puro logos), nonostante i loro nomi epici appaiono intrisi di un’intensa umanità. I temi di fondo delle altre opere di Pavese (l’ineluttabilità del destino su tutti) sono filtrati attraverso un complesso impianto culturale, derivante dagli studi dei testi classici, di etnologia, storia delle religioni e psicanalisi. L’architettura di simboli e rimandi può rendere spesso difficile la comprensione dell’opera, ma i Dialoghi con Leucò non costituiscono un testo per esperti, poichè trattano del soffrire di ogni uomo, di tutti coloro che restano interdetti di fronte alla caducità delle cose, alla forza terribile delle passioni.
I 5 attori che si alternano sulla scena sono tutti bravi, e per evitare stacchi netti fra un dialogo e l’altro ad ogni cambio di scena una voce fuori campo legge brani direttamente dal testo di Pavese. La scenografia è semplice, vi domina il bianco; dal soffitto pendono le sculture di ferro di Graziano Piazza, mentre sullo sfondo vengono proiettate sagome umane, come a simbolizzare che ogni dialogo, abbia per protagonisti Dèi, eroi o semidèi, non fa altro che porre quesiti viscerali sulla condizione dell’uomo. Nel suo rifiuto di conformarsi alla tendenza letteraria dei tempi, Pavese voleva infatti, seguendo un sentiero controverso, giungere semplicemente a una lucida valutazione di quell’ineluttabile e onnipresente inquietudine che domina le nostre vite. Come dice la suicida Saffo, “Anche ciò che è morto si dibatte inquieto”.

Recensione by Antonia Ori

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