Feb 092009
 

MONI OVADIA – RABINOVICH E POPOV.
Teatro Palladium – Roma, 30-31 gennaio, 1 febbraio

★★★★☆

E’ possibile raccontare la storia dell’Unione Sovietica in 155 minuti? Ci riesce con successo e la consueta originalità Moni Ovadia, il grande affabulatore di origini bulgare ma naturalizzato in Italia, con il suo spettacolo Rabinovich e Popov. Moni Ovadia di Spazio BaluardoAccompagnato al pianoforte da Carlo Boccadoro, che esegue nel corso dello spettacolo intermezzi musicali ispirati alla tradizione russa ed ebraica mischiati a composizioni più originali, Moni Ovadia racconta attraverso gli occhi di due semplici uomini della strada – Rabinovich e Popov appunto, rappresentati dai due cognomi più comuni in Russia per le famiglie di religione rispettivamente ebraica e ortodossa – la storia del sogno comunista e del suo fallimento. Attraverso aneddoti, letture di cronache e testimonianze del tempo, canti, musiche, e perfino barzellette, Ovadia riesce ad incantare come pochi, passando con naturalezza dalla comicità al dramma, dal dramma alla più mordace ironia.
Dopo una divertente apertura, l’artista inizia il suo monologo partendo da quella coraggiosa presa del Palazzo d’Inverno che porta alla nascita dell’Unione Sovietica. E’ lo Stato ideato da Lenin e Trotsky, verso il quale i lavoratori di tutto il mondo guardano con speranza perché carico di promesse; promesse che Lenin non farà in tempo a mantenere, a causa della sua precoce scomparsa. Il suo successore, Stalin, concentrerà nelle mani un immenso potere. Uomo complesso, astuto e terribile allo stesso tempo, Stalin è la figura storica cui nello spettacolo viene dedicato più spazio. Per Ovadia è stato il leader politico più potente, temuto, e idolatrato di tutti i tempi. Ne viene raccontata l’ascesa all’interno del Partito, fino all’inaspettata presa del controllo dell’apparato, conquistato grazie all’isolamento che Stalin seppe fare del vero numero 2 del PCUS, Trotsky; è l’inizio di una serie di scelte pericolose, come quelle di politica economica, che videro l’abbandono della NEP, progetto di Lenin, in favore di una strategia a tenaglia di collettivizzazione e industrializzazione forzata che farà dell’URSS il secondo Paese industriale del mondo, ma minerà pesantemente il suo futuro agricolo, determinando il deficit degli anni successivi.
Ovadia si sofferma poi, con un tono che oscilla continuamente tra tragico e comico, sull’aspetto più spietato di Stalin, quello che mise in atto la deportazione di migliaia di kulaki, colpevoli solo di essere proprietari di terre, e ideò le “purghe”, per sbarazzarsi della vecchia guardia bolscevica. Quando l’affabulatore arriva a raccontare la feroce repressione della “controrivoluzione”, che deportò nei Gulag milioni di persone sospettate di cospirare contro il sogno del “socialismo in un solo Paese”, le testimonianze del tempo sono un vero pugno nello stomaco per tutti noi del pubblico.
Il tono cambia però in fretta, si fa più leggero quando si arriva alla morte di Stalin. L’estro giocoso di Ovadia si adatta meglio alla narrazione degli aneddoti che vedono protagonisti Kruschev, Breznev e Gorbaciov. L’opera di distensione di Kruschev, che dà inizio alla “destalinizzazione” denunciando i crimini commessi da Stalin, e sceglie la strategia della distensione durante la guerra fredda, è descritta con una certa ammirazione. Ma è con la descrizione della figura di Breznev, impietosa, spassosissima e irresistibile, che Ovadia dà il meglio di sé. Per quanto riguarda Gorbaciov, l’ideatore della Glasnost viene assolto dall’accusa di essere stato il responsabile del crollo dell’URSS, che franò invece su sé stessa, conflagrazione di un colosso dalle spalle troppo deboli. Duro invece il giudizio sul primo Presidente della neonata Federazione Russa, Eltsin, colpevole di aver venduto le spoglie del Paese ai migliori offerenti, un gruppo di plutocrati che ancora adesso domina lo Stato. E ancor più duro il giudizio sul suo delfino, quel Vladimir Putin ex colonnello del KGB, che governa il Paese nel solo modo che conosce, il modo in cui è stato addestrato… e il pensiero di tutta la sala corre ad Anna Politkovskaja.
Nell’insieme, l’obiettivo di Moni Ovadia non è quello di dare una lezione di storia, ma quello di provare, con l’umiltà di un artista e di un narratore, a spiegare come abbia potuto il grande sogno di Marx e Lenin trasformarsi nei decenni seguenti in un’utopia, e a tratti in un incubo. Ovadia esprime mirabilmente questa scissione tra la teoria marxista-leninista e la prassi dell’URSS attraverso le parole di uno dei suoi personaggi, l’ebreo Rabinovich, fra i primi ad iscriversi al Partito Comunista Sovietico: Rabinovich insiste per vedere un oto-oculista, nonostante gli venga ripetuto che tale figura medica non esiste, e quando gli viene chiesto di spiegare che razza di malattia abbia, risponde candidamente: “Vedi compagno, è che io SENTO una cosa, ma ne VEDO un’altra…”
Attraverso la storia della gente comune, di cittadini e di soldati prima che di segretari di partito o presidenti, Ovadia riporta in vita una lunga stagione di speranze e tragedie, chiudendo lo spettacolo all’insegna della malinconia e del rimpianto verso quello che avrebbe potuto essere, e non fu mai: “Io non ho preso il palazzo d’Inverno, io non sono un comunista. Ma guardo questa bandiera rossa e piango.”

Recensione by Antonia Ori

  One Response to “RABINOVICH E POPOV: il grande affabulatore e la bella utopia”

  1. ma sta ragazza scrive proprio bene!!!!

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