Gen 272013
 

Qualcosa nell’Aria (Apres Mai), di Olivier Assayas, con Clement Mètayer, Lola Crèton, Felix Armand, Carole Combes, India Menuez, Hugo Conzelmann, Mathias Renou. Francia 2012, 122 minuti

★★★½☆

Olivier Assayas, già critico dei “Cahiers de Cinema” è uno dei cineasti francesi più profondi ed introspettivi, capace di coniugare vicende politiche e sociali con un asciutto ed intenso approfondimento psicologico.
Conoscitore della musica rock (è stato anche redattore della rivista “Rock & Folk”) esordì nel 1986 con un film profondo e disturbante, inerente i componenti di una rock band parigina che, macchiatisi casualmente di un delitto durante una rapina, inesorabilmente cadevano in una drammatica deriva esistenziale. La presentazione del film, cui avemmo occasione di assistere, al cinema “Politecnico” di Roma, ci offrì l’opportunità di conoscere un nuovo autore affascinante, dialettico, intenso.
Questa sua caratteristica si è poi confermata in quasi tutte le sue opere, da “Contro il Destino”, film sul disagio di vivere, molto in stile “nouvelle vague” anni sessanta, a “L’Eau Froide”, drammatica storia di adolescenti disadattati, ad “Irma Vep”, rifacimento del personaggio della vampira Musidora, capolavoro del cinema muto di Louis Feuillade, a “Clean”, la lotta per la sopravvivenza di una cantante punk rock, con le splendide musiche di Brian Eno, nel quale il regista rende un appassionato omaggio all’ex moglie Maggie Cheung, protagonista del film, a “Carlos”, la vita del fantomatico capo terrorista, sino all’attuale “Apres Mai”, vincitore del premio per la migliore sceneggiatura a Venezia 2012.
Il linguaggio scelto da Assayas per questa sua nuova opera non è quella politico, non riguarda la mera descrizione delle lotte sociali in senso stretto, e non ha per obiettivo la recriminazione su opportunità perdute, ma è un suggestivo viaggio nella giovinezza, nei suoi slanci ideali, nel suo desiderio di libertà e di trasformazione individuale, prima che sociale o politica. Il flusso delle immagini, infatti, risplende di un autentico fascino onirico, e di inquieta ed a volte poetica suggestione.
Siamo nella provincia francese, all’inizio degli anni settanta: nell’aria c’è ancora la rivolta del sessantotto parigino, che permea vite, rapporti, sensibilità. Assistiamo alle vicissitudini di un gruppo di amici, che praticano una vita assolutamente libertaria, piena di caos creativo, ed in conflitto con tutti i dogmi, anche quelli della sinistra istituzionale francese. Vediamo i duri scontri con la polizia, le rapide azioni dimostrative notturne e le conseguenti fughe, gli incidenti, le pericolose derive violente, gli errori, l’anelito alla realizzazione del sé nella creazione artistica, la disperata ricerca di una umanità nuova e di rapporti sociali più equi.
Attraverso la narrazione, nella figura di Gilles, il vero protagonista, Assayas ritrova sé stesso adolescente, liceale legato ai nuovi movimenti di sinistra di allora, figlio di un autore di fiction televisive, da cui mutuerà la passione per il cinema, ma che contesta in quanto creatore di opere “borghesi”. Appassionato di tutte le arti figurative e della musica, vera interprete dello spirito del tempo, il ragazzo passa serate intere ad ascoltare intensamente la colonna sonora della sua generazione, i vari Syd Barrett, Kevin Ayers, Mc5. Insieme ai suoi amici egli organizza proteste e prepara volantini. Persa la sua ragazza, Laure, che, partendo per Londra, gli dona un libro del poeta “beat” Gregory Corso, si reca, quindi, in gruppo in Italia, fermandosi a Firenze, ove incontra la dolce Christine, militante inflessibile, che però l’abbandona, per recarsi a Reggio Calabria a filmare le lotte operaie, mentre lui ritorna in Francia. Ma anche Jean Pierre, Alain, Maria, suoi compagni di scuola e di lotta, sono figli dello spirito del tempo, vivono le sue esperienze, si trovano, si separano, si scontrano con i troskisti che cercano di imbrigliarli in canali ideologici preconfezionati.
Il regista compie anche, ma non solamente, un’operazione autobiografica, in una specie di suggestivo romanzo di formazione. L’opera è affascinante e significante, caratterizzata da vivida passione, e ripercorre un’epoca fondamentale della storia recente, ove elementi di autobiografia e di finzione si mescolano straordinariamente, a comporre un affresco mai banale, vivido e sognante. I personaggi vengono spesso ripresi in ambienti pieni di luce, le loro vite, le loro parole sono descritte con toni elegiaci, ma molto misurati, evitando qualsiasi retorica. Il regista, infatti, non idealizza il “movimento”, ne sottolinea le contraddizioni, vedendo, ad esempio, nel ruolo secondario che anche in quegli ambiti viene assegnato alla donna, il germe che determinerà l’esplosione della protesta femminista.
Assayas si cala splendidamente nello spirito dell’epoca, quando ogni incontro con un altro essere umano sembrava portatore di speranza, ogni libro letto rappresentava un’avventura dello spirito, ove l’ascolto della musica espandeva la mente, ed il caos anarchico generato dal Maggio creava nuove identità, mentre la “Summer of Love” californiana era portatrice di nuove suggestioni artistiche ed esistenziali. Descrive con pagine toccanti l’incontro tra i ragazzi francesi e quelli italiani, lo scambio delle loro esperienze di lotta, la loro fratellanza. Non rimane però confinato nell’utopia di quei tempi, ben presto venuta a cadere: il finale del film, ironico ed amaro, vede Gilles, abbandonata la militanza, recarsi a Londra per seguire mestamente il suo destino di cineasta commerciale.
A differenza di Bertolucci, che in “The Dreamers” guardava il sessantotto in chiave totalmente elegiaca ed intimistica, e di Philippe Garrell, che nel pregevole “Les Amants Reguliers” descriveva quell’epoca con un’opera intellettualistica, anche se non priva di poesia, Assayas trova una mirabile sintesi tra la descrizione storico ambientale e la cifra poetica ed esistenziale, raccontando quella tumultuosa e grandiosa stagione con notevole onestà intellettuale.

Recensione di Dark Rider

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