Dic 012016
 

Fai Bei Sogni, di Marco Bellocchio, con Valerio Mastandrea, Berenice Bejo, Guido Caprino, Barbara Ronchi, Nicolò Cabras, Dario Dal Piero, Emmanuelle Devos, Fausto Russo Alesi, Roberto Herlitzka. Italia, Francia, 2016, 134 minuti.
★★★½☆

Fai_Bei_Sogni_Poster_Italia_01_mid Marco Bellocchio ha spesso ricercato, più di molti altri autori italiani, ispirazione per i propri film nella letteratura.
“Il Gabbiano” era una splendida rievocazione del romanzo cecoviano, piena di pathos e di asciutto lirismo, “Enrico V” era ispirato a Pirandello, “Diavolo in Corpo” era una (allora) scandalosa rievocazione del romanzo di Radiguet, “il Principe di Homburg” una bellissima, onirica, allucinatoria rappresentazione del romanzo di Von Kleist, cui era anche ispirato lo psicoanalitico “Il Sogno della Farfalla”, mentre la poetica rivisitazione della tragedia di Aldo Moro, in “Buongiorno Notte”, adottava un titolo ripreso da una poesia di Emily Dickinson.
Adesso il regista traspone, a suo modo, il romanzo autobiografico di Massimo Gramellini “Fai Bei Sogni”, ovviamente mettendo in risalto i temi a lui più vicini, rimanendo abbastanza fedele alla lettera del romanzo, ma impossessandosi dello spirito di esso.
Il racconto parte dalla tragica esperienza del bambino Massimo (il bravissimo Nicolò Cabras) che viene segnato dalla scomparsa della madre a soli nove anni; la spiegazione ufficiale è “infarto fulminante”, ma il bimbo non accetta assolutamente questa versione e ne rimane segnato a vita.
Bellocchio ne descrive l’infanzia con grande inquietudine visiva, e tensione emotiva; le lunghe serate con la madre, lo sceneggiato televisivo, Belfagor, che vedeva con lei, che fu “cult” negli anni sessanta, interpretato dalla cupa Giuliette Greco, gli incubi del bambino, la madre che lo accudiva, e con la quale viveva un rapporto simbiotico, la tragicità della sua improvvisa scomparsa. Il padre tenta di metterlo in contatto con un sacerdote che gli dice di accettare quella morte, e lui lo respinge furiosamente, mentre, da adolescente, nell’incontro con un altro ambiguo prelato (Roberto Herlitzka), discetta di aldilà e vita eterna. Il regista nei numerosi passaggi d’incubo ricorrenti nella narrazione trova una nuova vena creativa di stampo “gotico” che non gli conoscevamo. I fantasmi dell’infanzia, cupi, ossessivi, segnano la vita futura del bambino deprivato bruscamente dell’amore materno.
Quella morte lo trasformerà in un adolescente e successivamente in un uomo freddo, distaccato, sospettoso, incapace di amare, sempre in guardia per il timore di non sopravvivere.
L’adulto Massimo giornalista affermato (Valerio Mastandrea), un bel giorno si risveglia ed è costretto a confrontarsi con le radici del suo dolore, con il rimosso, con Belfagor, che in bellissime immagini oniriche ancora gli appare, come costantemente avveniva da bambino, forse angoscioso tramite tra il mondo dei morti e quello dei vivi, sino a scoprire la tragica verità negata, il suicidio della madre.
Ma in realtà la storia ha intrigato profondamente Marco Bellocchio, e si vede: famiglia, maternità, paternità, una casa descritta in vari periodi di tempo, e gli avvenimenti che segnano la vita del paese. Massimo è giornalista affermato, va a Sarajevo, è testimone del suo tempo, distaccato ma partecipe. Vive a Roma, e poi a Torino, dove tornerà a stabilire la sua residenza.
Nel ribellistico “I Pugni in Tasca”, cinquanta anni fa, l’Autore, da sempre interprete di suggestioni psicoanalitiche, uccideva metaforicamente la madre, ora prende spunto dal romanzo di Gramellini per esorcizzarne la perdita, inaccettabile per un bambino. Bisogna dire che le pagine che descrivono l’epoca dell’infanzia sono intrise di una profonda suggestione filmica, la paura dell’inconoscibile; le frequenti apparizioni di Belfagor, rappresentate ora in funzione terrifica, ora salvifica, lasciano un senso di inquietudine, come il gioco con la madre che si nasconde in una cassapanca, ove accoglie il figlio già terrorizzato per la sua sparizione, ove viene descritta forse una inconscia volontà di rientrare nel ventre materno.
L’opera è meno centrata nella maturità, forse le vicende della vita di Massimo adulto, il superficiale rapporto con il padre, i suoi viaggi, l’incontro con la dottoressa che lo cura da una supposta crisi cardiaca (una intensa Berenice Bejo), e poi diviene la sua appassionata compagna, sono un po’ generiche e convenzionali, come l’impatto del giornalista con la redazione del suo giornale, o lo sfrenato twist che egli balla insieme a lei, chiara rievocazione di quello ballato a suo tempo spensieratamente con la mamma. Però Mastandrea è un attore eccellente, che nella cifra drammatica trova la sua migliore espressività, e la sua figura intensa e sofferente non si dimentica facilmente. E nei lunghi silenzi, nelle menzogne, nei tormenti dell’anima e nella solitudine raffigurata dalle frequenti inquadrature del corridoio di casa, visto, anziché come rifugio, come desolazione, risalta la cifra espressiva di quest’opera intensa e profonda, caratterizzata, come tutte le opere dell’Autore, da un grande rigore formale.

Recensione di Dark Rider

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