Nov 032013
 

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Slowcult ricorda Lou Reed. Per sopravvivere in questi complicati anni dieci bisogna avere fegato, Lou ci ha provato con uno nuovo, ma non ce l’ha fatta. Forse senza di lui, Slowcult non sarebbe mai esistito, di certo sarebbe stato molto, molto diverso e meno interessante.

 

 L’Apostolo delle tenebre

A seguito delle complicazioni successive ad un difficile trapianto di fegato di alcuni mesi fa, se n’è andato Lou Reed, il poeta delle tenebre, il cantore dell’universo tragico dei perdenti e dei derelitti, il cui mondo ha descritto con aspra, drammatica poesia ed intenso lirismo.

Sin dall’inizio della sua carriera, con i mitici Velvet Underground, nati nel grembo dell’avanguardia artistica di New York, nella Factory di Andy Wahrol, con la sua voce apparentemente piatta e monotona, tratteggiò poeticamente i contenuti della vita e della morte, con tragica consapevolezza.

Vero genio del rock maledetto, la disperazione e la lucida follia furono sempre sue compagne di vita: attraversò l’inferno della tossicodipendenza, e ne cantò l’abiezione e la terribile fascinazione, come nella seminale “Heroin”, nel primo album con i Velvet Underground, gruppo di incomparabile valore, formato da personaggi leggendari, come Nico e John Cale, (la risposta della creatività artistica newyorkese alla gioiosa controcultura libertaria” Peace and Love” dei Figli dei Fiori californiani), che con stile scarno ed asciutto, intriso di liriche tragiche e struggenti, trasfigurava poeticamente la morte, divenuta quasi oggetto di culto.

In realtà il suo carattere e la sua formazione risentirono sempre della sua drammatica adolescenza, quando fu costretto a sottoporsi ad elettroshock dai genitori per le sue tendenze omosessuali e per la sua irrequietezza. Fu venerato da David Lynch, che si ispirò alle sue liriche per costruire molte sue inquietanti e torbide atmosfere, e soprattutto da Wim Wenders, amante del rock americano anni settanta, che lo volle più volte sul set, come in “Così Lontano, Così Vicino”.

Dopo lo scioglimento dei Velvet Underground, fu rilanciato da David Bowie, che produsse il suo allucinatorio “Transformer”, omaggio alla trasgressione, ed alla diversità sessuale, le cui immagini di copertina traevano ispirazione dal “Glam Rock” allora in voga, e soprattutto dal cinema statunitense d’avanguardia anni cinquanta sessanta, in particolare da Kenneth Anger, con i suoi “Fireworks” e “Scorpio Rising”. Un album vibrante, di maturo e trascinante rock, pieno di segnali di decadenza, che contiene perle come “Vicious”, inno alla degradazione ed alla perversione, ispiratogli dall’amico Wahrol, “Walk on the Wild Side”, viaggio metropolitano nella livida New York degli emarginati, degli spacciatori, delle prostitute transessuali, ma anche come la lirica e apparentemente serena “Perfect Day”, in realtà fortemente ambigua.

Berlin sarà l’album della maturità, molto intellettuale e profondamente introspettivo, psicoanalitico, ove l’Artista riverserà tutti i suoi tragici fallimenti esistenziali, diventando quasi lo specchio di una generazione maledetta, descrivendo con accenti di composto e commosso lirismo l’amore, il tradimento, l’odio, la sconfitta, attraverso la narrazione della storia d’amore sadomasochista di due tossici, Jim e Caroline, trapiantati nella città simbolo della Decadenza, Berlino, che non sfuggiranno al loro tragico destino, dopo un percorso di vita descritto con toni aspri e nichilisti.

Si identificò esistenzialmente e totalmente con la sua città, New York, vivendo in simbiosi con essa, diventando un’icona della trasgressione, della degradazione, ma anche di una autentica e profonda umanità: quella dell’universo dei perdenti, dei reietti, di cui seppe descrivere con aspra poesia tutto il disagio esistenziale. A questo proposito l’album omonimo dell’89 fu salutato dalla critica come uno splendido capolavoro, in cui l’Autore ritornava quasi allo stile scarno ed essenziale dei Velvet Underground.

Combattè il perbenismo americano e la censura, che cercò di colpirlo ripetutamente, denunciando le perversioni occulte dei politici conservatori, ed attraverso la solida amicizia nata con Vaclav Havel, diventò un’icona della Rivoluzione di Velluto ceca.

Poeta della tenebra che è in ciascuno di noi, narratore della diversità, della difformità e del dolore, fu affascinato da Edgar Allan Poe, di cui riscrisse e musicò “The Raven”. Resterà un musicista tenebroso e sublime, un cantore del buio che anela alla luce, cinico, disilluso dal mondo, capace di trasformare nella poesia più lancinante e disperata la vicende della vita quotidiana. Antesignano del punk e di certa musica dark, senza di lui non avremmo avuto David Bowie, che lo ha salutato come Maestro, i Joy Division, Morrissey.

Dark Rider

 

Una sola parola: grazie.

Perché ogni aggettivo per descriverti mi sembra inadeguato.
Per averti scoperto animale da rock’n roll quando ero ancora una bambina.
Per aver amato i tuoi eccessi quanto la tua musica.
Per avermi fatto ripercorrere a ritroso la parabola dei Velvet Underground.
Per aver cantato la disperazione degli ultimi, elevandola a poesia.
Per aver saputo comporre un sublime urlo di dolore all’eroina (che alcuni sprovveduti hanno pensato fosse un elogio).
Per aver provato sulla tua pelle l’ipocrisia a suon di elettroshock.
Per non esserti piegato rimanendo fedele a te stesso.
Per essere stato un testimone credibile.
Per essere diventato un’icona, tuo malgrado.
Per averla fatta a pezzi, quell’icona.
Per aver aperto la strada al punk e a molto altro.
Per il noise di Metal Machine Music.
Per l’ode metropolitana di New York.
Per la serena maturità finalmente raggiunta.
Per la tua inconfondibile voce, così ruvida, così dolce.
Per i due concerti ai quali ho avuto la fortuna di assistere.
Per essere stato una costante nella colonna sonora della mia vita.
Per il coraggio di sperimentare che ti ha sempre contraddistinto.
Perchè a me Lulu è comunque piaciuto.
Perché tifavi Brooklyn Dodgers.
Perché amavi Laurie.

Grazie, Lou.

Claudia Giacinti.

Il mio Lou Reed

Il mio Lou Reed è essenzialmente quello di “The Velvet Underground & Nico” e quello di “Transformer”. La mia devozione per questi due dischi è talmente grande e incomparabile rispetto alla considerazione che ho per altri suoi lavori che potrei quasi fingere che Lou Reed non abbia mai pubblicato altro. E dunque…

“All songs written by Lou Reed”. Probabilmente basterebbero queste poche parole riportate nei crediti di “The Velvet Underground & Nico” per dare all’indimenticabile musicista newyorchese il posto che poi ha comunque meritato nella storia. Quello che l’immortale capolavoro prodotto da Andy Warhol ha disseminato su tutto il rock a venire è semplicemente incalcolabile: tra i primi album a dare al rock una vera dignità artistica ha anticipato punk, noise e new wave, e ha elaborato un’interpretazione diametralmente opposta del concetto di psichedelia (e quindi anche del rapporto con le droghe) rispetto a quanto cantavano negli stessi giorni sull’altra costa americana le band legate al movimento hippie. Mentre in California si inneggiava all’amore libero e all’espansione della conoscenza, a New York i Velvet Underground (ad affiancare Lou Reed c’è l’insostituibile contributo sonoro di John Cale, Sterling Morrison e Moe Tucker), nascondendosi apparentemente dietro il pop della banana di Warhol, narravano con un’efficacia intellettuale mai vista il nichilismo dell’eroina, la paranoia dell’abbandono e della solitudine, l’oscurità del sadomasochismo. I testi di Lou Reed sono di qualità sopraffina come pochi altri della sua e di ogni altra epoca del rock, ricchi di gusto per la parola, creativi e immaginifici nel disegnare atmosfere morbose e prive di speranza, coronano il devastante approccio sonoro che corre lungo tutto l’album. La magnifica ossessività di “Venus in Furs”, il rumore puro di “European Son” o il lancinante decadentismo di “All Tomorrow’s Parties” e “Heroin” guidano in un percorso senza ritorno verso il degrado e l’alienazione, solo apparentemente spezzato dalla calma di “Sunday Morning” o di “I’ll be Your Mirror”.
Con queste premesse “Transformer” sembra un disco di un musicista completamente diverso, ed effettivamente è solo una delle innumerevoli mutazioni di un artista che non ha mai avuto paura di mettersi in gioco con qualcosa di nuovo, senza il timore del passo falso. L’uscita di John Cale dai Velvet Underground dopo “White Light/White Heat” aveva fatto cadere il lato più avanguardistico della band che si avviò ad un rapido declino pur lasciando dischi buoni, come ad esempio “Loaded”. “Transformer” è il secondo disco di una lunga carriera solista, ricca di alti e bassi, seguita alla fine dei Velvet Underground, ed è essenzialmente un disco glam rock, pieno zeppo di grandi canzoni, e con un tocco di malinconia in più rispetto alle opere del re del glam, quel David Bowie che qui fa da produttore (insieme allo straordinario Mick Ronson) e mecenate. Le sfavillanti melodie di “Satellite of Love”, la dolcezza e la solo apparente semplicità di “Perfect Day” (il ritornello perfetto?), il manifesto di una vita “Walk on the Wild Side” cantato quasi sottovoce, l’incedere sbruffone di Andy’s Chest, la scanzonatezza maliziosa di “Vicious”, il dixieland di “Goodnight Ladies”, il rock’n’roll di “Hangin’ Round” sembrano lontani anni luce dagli assalti sonori dei Velvet Underground, più vecchi di solo un lustro. E invece entrambi gli album, e altri della carriera di Lou Reed, sono legati da un fatto semplice: i più grandi autori non sanno che farsene della forma perché la vera sostanza che è la bellezza della loro musica uscirà fuori nei modi più diversi, siano essi la viola abrasiva di John Cale e la batteria martellante di Moe Tucker o il falsetto di David Bowie e i lustrini di Mick Ronson.

Andrea Carletti

Una droga leggera: Lou Reed e il cinema

è noto l’insuccesso che accompagnò tutta la breve e irripetibile carriera dei Velvet Underground lungo l’arco di poco più di quattro anni. Ma altrettanto nota è la dichiarazione di Brian Eno nell’affermare come “soltanto cento persone acquistarono il primo disco dei Velvet Underground, ma ciascuno di quei cento oggi o è un critico musicale o è un musicista rock”. Un’eredità che per essere assimilata in pieno ha necessitato il passare di diversi decenni per permettere la nascita di band altrettanto fondamentali che difficilmente avrebbero visto la luce senza la comparsa  della formazione newyorkese (un nome su tutti, Sonic Youth).

Un lungo tempo di attesa riscontrabile anche in campo cinematografico, un territorio artistico che ha visto crescere in maniera esponenziale negli ultimi vent’anni l’inserimento di composizioni e partiture recanti la firma di Lou Reed. Al contrario degli amici fraterni David Bowie e Iggy Pop, Reed non ha mai legato esplicitamente il suo nome al cinema, se escludiamo il regista Julian Schnabel, che ha utilizzato i suoi brani in praticamente ogni opera e ha firmato nel 2007 lo splendido film-concerto “Berlin”, e, ovviamente, Wim Wenders e il suo “Così lontano, così vicino”, dove il nostro veniva ripreso durante un’esibizione sul palco. Ma mai come in questo periodo è facile, seduti sulle nostre poltrone, trovare le nostre orecchie piacevolmente invase dalla sua inconfondibile voce parlata e sussurrata. Registi difficilmente equiparabili e assimilabili trovano un punto di contatto nella sua musica, rendendo ancora più esplicita quella universalità che contraddistingueva il grande poeta newyorkese, capace di raggiungere i gusti delle persone più disparate e distanti. Certo, la sensazione nel leggere i commenti e i post di commiato nei giorni immediatamente successivi alla sua morte è spesso quella di una facile associazione del suo inimitabile talento compositivo con i soliti due tre-brani manifesto (Perfect Day, Walk on the Wild Side), e probabilmente, messi di fronte all’ascolto delle più radicali sperimentazioni velvettiane quali i capolavori Sister Ray o The Murder Mystery, in molti ridimensionerebbero il loro giudizio. Ma certamente il vedere due pellicole girate l’anno scorso (seppur assai mediocri) di registi diversi come Robert Zemeckis (“Flight”) e Rob Zombie (“Le streghe di Salem”) accompagnate rispettivamente da Sweet Jane e Venus in Furs, non può che esaltarci e farci gioire, confermando come il messaggio musicale di Lou Reed sia in grado di attraversare linguaggi e personalità artistiche completamente agli antipodi tra loro, con fascino e rara efficacia.

Ecco quindi, come omaggio alla sua scomparsa, una playlist di dieci canzoni scritte da Lou Reed inserite all’interno di pellicole in rigoroso ordine cronologico. La scelta è stata dettata ovviamente sia dalla bellezza della composizione musicale, sia dal giudizio critico del film.

(Fortemente consigliata è la sua unica regia cinematografica, “Red Shirley”, uno splendido e breve documentario su un’ anziana cugina che ha da poco superato la soglia dei cent’anni. Una toccante intervista-storica dove il Lou Reed musicista si mette da parte trasformandosi egregiamente in attento intervistatore e ascoltatore).


1980: Candy Says in Berlin Alexanderplatz di Rainer Werner Fassbinder

1993: Why Can’t I Be Good in Così lontano, così vicino di Wim Wenders

1996: Perfect Day in Trainspotting di Danny Boyle

1997: This Magic Moment in Strade perdute di David Lynch

1998: Satellite of Love in Velvet Goldmine di Todd Haynes

2000: Oh! Sweet Nuthin in Alta fedeltà di Stephen Frears

2001: Stephanie Says in I Tenenbaum di Wes Anderson

2005: Venus in Furs in Last Days di Gus Van Sant

2005: I Found a Reason in V per Vendetta di James McTeigue

2007: Pale Blue Eyes in Lo scafandro e la farfalla di Julian Schnabel

Federico Forleo

Titles’ tracks

Che succede? Aspetto il mio uomo, il mio vecchio uomo dagli occhi di un pallido blu, un dono, un figlio di Coney Island, New York sarà il tuo specchio, una domenica mattina, semplicemente un giorno perfetto,

Vizioso, mi colpisci con un fiore, per tutta la notte, stupido uomo, insensatamente crudele, oh Jim, oh dolce nulla, voglio essere nero, folle sensazione, aspetta, eroina, sangue pompato, miele gelato, sorrisi, calci, dammi un po’ di buoni momenti e lasciami solo.

Ciao, sono io! Mi ricordo di te. Credo nell’amore, l’inizio di una grande avventura, cerco l’amore nelle luci della città, crescendo in pubblico, così solo, lo dico al tuo cuore, malato di te.

Ho trovato una ragione, eccola arrivare, dolce Jane, la ragazza di Charley, corri, corri corri, passeggia sul lato selvaggio, nel viale sudicio, corri nel sole, satellite d’amore, è la mia migliore amica, la sua vita è stata salvata dal Rock’n’Roll.

L’ultima grande balena americana. Pensaci su, il giorno in cui è morto John Kennedy, frustrazione, onde di paura, canzone triste, cambiati per sempre, spada di Damocle, nessuna chance, non c’è tempo, cremazione, cenere alla cenere.

Fabrizio Forno

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