EUGENE – SEVEN YEARS IN SPACE
Lo scorso anno al Comfort Festival avevo notato Eugene al fianco di Garbo il cui set fu uno di quelli che più mi colpì dell’intero festival organizzato da Barley Arts.
Con l’occasione dell’uscita del suo interessante “Seven Years in Space”, suo primo album vero e proprio dopo esser stato al fianco appunto di Garbo e di Andy dei Bluvertigo e aver realizzato colonne sonore, lo abbiamo incontrato per farci raccontare il suo viaggio.
Ciao Eugene e benvenuto su Slowcult!
E:Ciao, grazie! È un piacere essere vostro ospite.
“Seven Years in Space” è il tuo primo vero album di canzoni, ma è punto di arrivo e credo di partenza del tuo percorso musicale che fino a ora è stato pieno di collaborazioni, colonne sonore e
molto altro. Parlaci di come sei arrivato a fare un album in piena regola
E:Dopo tanti singoli, gli unici album pubblicati a mio nome finora erano stati la colonna sonora per il
film “Lavender Braid” e il live “Ionosphere”, entrambi quasi interamente strumentali. Ho sentito la
forte necessità di esprimermi in modo più diretto, attraverso delle canzoni.
Mentre i due lavori precedenti rappresentano idealmente una “dilatazione”, questo nuovo album è
l’esatto opposto, cioè la “concentrazione” dei contenuti in una forma credo più accessibile.
Sento nell’album la summa dei tuoi ascolti, un album molto poco italiano e destinato a un mondo underground che è ancora vitale e ancora si tiene al corrente delle nuove uscite, cosa che avviene,
per esempio al punk e al metal
E:Sin da piccolo ho sempre ascoltato molta musica internazionale, soprattutto anglofona: che questo
abbia influito molto sulla mia formazione non c’è ombra di dubbio! In ogni caso, ciò che mi interessa
prima di tutto è comunicare in modo sincero, senza pregiudizi sullo stile: la libertà creativa è necessaria
in questo momento, dopo sei decadi al termine delle quali si ha l’impressione che sia stato già “detto
tutto”.
Consiglia ai nostri lettori gli album new wave, synth pop o quant’altro assolutamente da ascoltare, quelli che ti hanno portato a fare musica
E:Mettendo innanzitutto da parte le etichette, mi limito a citarti solo quattro titoli e ti assicuro che sto
facendo una fatica che non puoi immaginare! Alcuni di questi album li ho “intercettati” mentre già
facevo musica, ma hanno avuto un forte impatto emozionale su di me: “Low” (David Bowie),
“Revolver” (Beatles), “Orizzonti perduti” (Franco Battiato), “Vienna” (Ultravox).
Aggiungo un extra: “The Wall” (Pink Floyd), tra i miei primissimi ricordi musicali. Avevo circa
quattro anni. “The Wall” è l’album che mi ha fatto scoprire una delle mie band preferite di sempre e che
qualche tempo dopo mi ha portato a scrivere le prime canzoni.
E ora facci fare un viaggio tra le tracce di questo album, un album che mi ha colpito per il suo
essere attuale, godibile, segno che questa musica è fatta per durare tra le decadi. Perché, per
esempio, solo sette anni nello Spazio?
E:Il nucleo dell’album era già pronto tempo fa, in un’altra forma, con altri arrangiamenti eseguiti insieme
alla band che mi accompagnava dal vivo. Quei brani erano pronti per essere pubblicati sette anni fa.
Invece qualcosa è accaduto, c’è stato un punto critico, come in una reazione chimica: ho cambiato
etichetta discografica, ho cambiato attitudine verso la mia musica e ho iniziato a fare concerti da solo,
voce e macchine. Nel frattempo ho sempre scritto nuove cose, ma ho continuato a suonare live alcuni
di quei brani mai pubblicati, che in un certo senso sono cresciuti con me: rimasti come sospesi nello
spazio, in attesa di essere riportati qui sulla terra in un certo momento, che non si sapeva se fosse quello
giusto ma di certo doveva arrivare. Ed è arrivato proprio dopo sette anni.
Grazie Eugene!
E:Grazie a te e un saluto a tutti i lettori di SlowCult!
Intervista di Fabrizio Fontanelli